mercoledì 1 novembre 2017

Un monumento a Pietro Monaco

di     Franco Bifarella

Premessa

Facendo seguito al mio intervento fatto durante il nostro incontro all’ Auditorium Popolare del 29/5/2013, siccome lo stesso è stato disturbato innanzitutto dalla mia incapacità di parlare a braccio per gli incipienti ma ormai continui ammanchi di memoria e poi per la pretesa di Tonino Grano di poter ridurre problemi così complessi e controversi in una sintesi di dieci minuti( fra non molto saremo costretti a misurare i danni arrecati a coloro che usano comunicare e dibattere con estreme sintesi esclusivamente e sconsideratamente solo on line), mi vedo obbligato per concludere e terminare il discorso, a riassumere il tutto e fare alcune proposte operative.
Resta ormai assodato,quanto meno per la Sinistra come documenta ampiamente il libro di Grano, che il fenomeno BRIGANTAGGIO di quell’epoca occore collocarlo più fra gli episodi di ribellione sociale che non in quelli criminali.
Gli autentici episodi criminali, perpetrati lungamente, nel tempo e nello spazio,dai nobili e dai possidenti locali, sono consistiti nell’appropriazione dei terreni demaniali della Sila, destinati da un editto di Carlo D’Angiò del 1333 al solo beneficio delle popolazioni di Cosenza e dei Casali per “USI CIVICI”, vale a dire per l’uso comune e collettivo  per semina, pascolo e legnatico, vitali per le famiglie di quei contadini.
Da sempre la “Sinistra” ha denunciato questi misfatti a parole e per iscritto, buon ultimo il libro di Tonino Grano, senza che da queste denunce teoriche sia mai scaturito qualcosa di concreto. Ma noi, dal punto di vista teorico, già sapevamo da gran tempo che la proprietà è un furto. Il vero problema, di grande attualità, è che tutt’ora questi terreni, quando non sono stati già venduti, risultano ancora di godimento e di “legittima proprietà” di questi rapinatori.
Quando Marx ed Engels nel libro: “India, Cina e Russia”, citatissimo da Tonino Grano, immaginavano e speravano per queste nazioni che  si stavano avvicinando alla modernità, una doppia rivoluzione che permettesse loro, ancora immersi in regimi feudali, di poter evitare e saltare gli orrori della fase capitalistica, e quindi della cruenta fase dell’accumulazione originaria del capitale, tale eventualità non era stata pensata solo in linea teorica ma era rafforzata oltre che dai fermenti della rivoluzione borghese in tutta Europa, anche dalla diffusione in quei grandi e popolosi paesi dei terreni adibiti ad “USI CIVICI”. In Russia il Mir, in India e Cina, i tanti villaggi che non conoscevano la proprietà personale e l’uso privato dei terreni che invece venivano assegnati da un capo-villaggio a rotazione ai contadini che li coltivavano e in qualche modo conferivano alla collettività i prodotti. Il gravissimo delitto compiuto dalla nobiltà contro la nostra comunità fin dalle epoca feudale, poi continuato dalla borghesia nell’epoca sia dittatoriale, sia democristiana i infine anche in epoca socialistoide, non è stato combattuto concretamente da nessun regime e nemmeno dalla cosiddetta sinistra, se non a chiacchiere.
PIETRO MONACO, questo ragazzo di 20 anni, figlio di contadini di Macchia di Spezzano Piccolo, è stato fra i pochi che in forma così radicale e senza compromessi, con un pugno di coetanei, tutti del circondario di Cosenza, ha saputo salvare l’onore e l’orgoglio della nostra gente, da sempre vessata e sottomessa, sconfiggendo sempre in tutte le azioni da lui intraprese, lor signori, facendosi beffa di tutte le loro numerosissime forze armate: Guardia Nazionale, Bersaglieri, Carabinieri Reali e Guardie Private.
       Pietro Monaco ha fatto tremare dalla paura e piangere per i cospicui danni inflitti, quasi tutti i possidenti e nobili della provincia di Cosenza.
       Le implicazioni sociali e politiche delle azioni del giovane contadino sono state ampiamente dimostrate dalle numerose e documentatissime ricerche effettuate da tanti storici e soprattutto da Pietro D’ Ambrosio  con il libro:”Brigantaggio” e con il libro”Ciccilla” da Peppino Curcio. Per quanto riguarda gli aspetti criminali dello stesso, per comprenderli appieno occorre contestualizzarli e rapportarli alle feroci e sanguinose repressioni effettuate sulle nostre popolazioni dalle truppe borboniche, dalle soldataglie piemontesi e dalle stesse bande garibaldine. Se si mettono insieme le stragi e le violenze perpetrati da tutti questi eserciti invasori a danno dalle inermi popolazioni meridionali, le poche uccisioni di Pietro Monaco spariscono.
Il crescendo di violenza e soprusi subiti da Pietro Monaco da parte di tutti i regimi statuali alternatisi in questo periodo nel Meridione d’Italia, lo portarono inevitabilmente all’unica soluzione possibile e praticabile: dichiarare guerra senza quartiere a tutto e a tutti e specialmente ai signorotti, ai ricchi e ai manutengoli locali.
PIETRO MONACO.
Nacque a Macchia di Spezzano Piccolo il 1836 da una famiglia di onesti lavoratori con il padre massaro e la madre filatrice, attività che permettevano loro una vita modesta ma sufficientemente tranquilla e sicura. A dimostrare tale tranquillità resta il fatto che Pietro Monaco, caso raro all’epoca, riesce a frequentare la scuola e ad imparare a leggere e scrivere.
L’infanzia di questi ragazzi, come dappertutto nei piccoli villaggi rurali della Presila cosentina,trascorreva serena, gioiosa e libera, senza la necessità della stretta sorveglianza dei rispettivi genitori in quanto a sorvegliarli c’era l’intero villaggio.
Giovinetto, frequenta moltissimo la Sila insieme al padre per coltivare quei terreni una volta destinati a usi civici comuni e gratuiti, ora concessi a pagamento dai signori locali e insieme agli zii carbonari per imparare ad erigere”cravunere”, fabbriche di carbone di legna, unica forma di energia dell’epoca. Ed infine, Pietro Monaco andava in Sila a caccia e a raccogliere funghi e legna da ardere. Insomma, anche se involontariamente imparando a conoscere i boschi, faceva pratica di brigantaggio perché all’epoca, non c’erano boschi senza briganti e non c’erano brigati senza boschi.
Nel 1855 all’età di 19 anni viene selezionato e richiamato al servizio di leva nell’esercito borbonico. Tale servizio con la sua durata di tre ani era odiatissimo dalle popolazioni contadine perché oltre a togliare loro gli affetti, toglieva una forza lavoro in alcuni casi indispensabile.
Per Pietro Monaco, il passaggio dalla vita bucolica nel piccolo villaggio e nei boschi della Sila alla caserma col suo regime di estrema disciplina e violenza e anche, nei periodi di libera uscita, le frequentazioni nella frenetica vita della metropoli campana, fu drammatico e traumatico anche se, per certi versi, istruttivo.
A Napoli, all’epoca, esisteva una nutrita pattuglia di soldati e studenti universitari cosentini che frequentavano e animavano la vita anche culturale cittadina. Tra questi giovani oltre a ferventi patrioti cominciavano a circolare anche le prime idee ed i primi movimenti anarchici e socialisti.
Pietro Monaco conobbe e frequentò, anche perché arruolato nel suo stesso battaglione, l’anarchico Ageslao Milano compaesano di San Benedetto Ullano.
Questi si era arruolato con il preciso proposito di attentare alla vita di re Ferdinando II. Così nel 1856, durante una parata militare a Napoli, l’anarchico esce dai ranghi, sfodera la baionetta e sferra due colpi al re senza però ucciderlo. Pietro Monaco ebbe modo di assistere da vicino a tutta la scena. Ageslao Milano dopo pochi giorni fu processato e impiccato. Un’altra esperienza ancora più drammatica Pietro Monaco la visse a proposito  della spedizione di Sapri di Carlo Pisacane. Fra gli organizzatori di questa avventura, c’era anche il nostro Giovan Battista Falcone di Acri.
Scopo della spedizione era la sollevazione dei contadini meridionali contro il regime borbonico e contro l’oppressione sociale di quelle popolazioni. Sia Pisacane che Falcone erano animati da idee socialiste. Il governo borbonico, avvertito dei fatti, organizzò una controreazione degli stessi contadini del luogo, spedendo anche un plotone di soldati fra i quali c’era il nostro amico Pietro Monaco.
Come è risaputo, lo scontro finì miseramente per i cospiratori. Prima ancora che l’esercito borbonico arrivasse, i contadini organizzati e aizzati dai preti che avevano avvertito gli stessi dell’arrivo di presunti briganti, fecero strage dei rivoltosi i quali militarmente impreparati, male armati e forse senza nemmeno la volontà di combattere contro coloro che erano venuti a liberare, perirono miseramente.
Pietro Monaco arrivò quando l’eccidio era appena terminato. Ebbe così modo di assistere alla prima rivoluzione socialista fallita sul nascere. Forse l’episodio è storicamente molto modesto per potersi annoverare tra le rivoluzioni.
Per Marx la prima grande rivoluzione socialista fu la Comune di Parigi del 1871 che arrivò, anche se brevemente, fino alla conquista del potere. Altre rivoluzioni definite socialiste successivamente si alternarono, alcune militarmente trionfanti ma teoricamente e politicamente fallite. Altre addirittura passate immediatamente dall’altro campo della barricata.
Tutto sommato, quei 300 giovani idealisti, disarmati e disarmanti, trucidati in quel di Sansa, meritano a mio avviso almeno il titolo di primi martiri del socialismo.
Nel 1858, finito il servizio militare, Pietro Monaco ritorna a Macchia. Qui, considerate le abitudini acquisite a Napoli, comincia a frequentare una donna di facili costumi del posto:Teresa Oliverio. Questa sposata con figli, ha anche una sorella di 17 anni, molto bella:Maria Oliverio. Pietro Monaco, pur continuando a trescare  con Teresa, in quello stesso anno finisce con lo sposare la giovanissima sorella Maria.
Nel 1859, non riuscendo  ad adattarsi alle vecchie abitudini contadine, si arruola nuovamente nell’esercito borbonico, per “surrogare” un rampollo diciassettenne della famiglia Gullo di Macchia, come prevedeva una legge in vigore all’epoca per tutelare i nobili e i signori locali.
Io non so se tale sostituzione venne fatta da Monaco per generosità e bonomia verso il giovanissimo erede della famiglia Gullo o se, invece, la surroga fu concordata per benefici economici, sicuramente l’episodio dimostra che all’epoca Pietro Monaco, per ritornare ad arruolarsi, non aveva ancora nessuna intenzione di darsi al brigantaggio. Ma quel nuovo servizio militare dura poco. Napoli in quel periodo era in pieno fermento. Era appena deceduto re Ferdinando II e già giungevano notizie dell’approssimarsi dell’esercito garibaldino. Per questi motivi nell’esercito borbonico i tradimenti e le diserzioni erano diffusissimi. Anche Pietro Monaco diserta e rientra a Macchia. Intanto Garibaldi, risalendo lungo la penisola senza colpo ferire per le diserzioni nell’esercito borbonico sopradette, giunge fino a Grimaldi dove i fratelli Morelli, patrioti della prima ora, avevano arruolato un piccolo esercito e preparato una grande accoglienza. Qui Garibaldi da un balcone della casa Morelli, pronuncia un discorso memorabile nel quale promette alle popolazioni calabresi nientemeno che il ripristino degli usi civici, l’abolizione dell’ odiatissima tassa sul macinato e la riduzione del prezzo del sale. Per quelle popolazioni  tali promesse valevano quanto una  rivoluzione.
Anche Pietro Monaco si entusiasma al discorso di Garibaldi ed essendo uomo d’azione, corre subito ad arruolarsi nelle bande garibaldine.
Per la prima volta però la sua adesione è fortemente motivata ed infervorata tant’è che con questo stato d’animo, nelle battaglie di Capua e del Volturno compie tali atti di coraggio e di eroismo da conquistare sul campo, lui soldato semplice, i gradi di sottotenente.
Anche questi episodi, oltre a dimostrare il già citato coraggio ed eroismo, rivelano ancora una volta il suo altruismo e la sua generosità oltre che le motivazioni sociali e politiche derivanti dalle lezioni impartitegli durante le frequentazioni a Napoli con i giovani patrioti anarchici e socialisti quali Ageslao Milano e Giovan Battista Falcone e altri ancora. Questi ultimi, più con le loro gesta che con le loro teorie, trasmisero al nostro eroe la consapevolezza della precarietà dello stato di cose esistenti e la necessità di cambiare o addirittura sovvertire il tutto.
Finita l’esperienza garibaldina, Pietro  Monaco torna a Macchia ove si rende conto che nessuna delle promesse fatte da Garibaldi è rimasta in piedi. Anzi, i suoi luogotenenti, i Morelli, i Baracco, i Berlingeri, diventati ancora più forti avendo anche acquisito direttamente il comando militare della situazione, avevano ripristinato le cose peggio di prima.
Garibaldi intanto si era ritirato a Caprera passando alla storia come un moderno Cincinnato che rifiutava glorie e prebende. Persino Carlo Marx, Engels e lo stesso Bakunin, che lo andò ad omaggiare a Caprera, ebbero grande stima di lui. Io credo invece che egli si ritirò a Caprera per la vergogna delle infinite promesse fatte ai poveri meridionali senza averne mai mantenuta alcuna.
E credo anche che se Pietro Monaco lo avesse avuto a portata di mano gli avrebbe fatto pagare caro tutti quegli inganni.
Ma le disavventure di Pietro Monaco non sono finite. Trascinato per sei lunghi anni dalla pacifica vita di villaggio alle più dure esperienze di caserma e di guerra in una metropoli caotica e politicamente effervescente ed impetuosa, ritornato finalmente a Macchia, per la quarta volta gli viene recapitata la chiamata alle armi, questa volta da parte dell’esercito sabaudo.
La burocrazia militare, anche se passata da un esercito ad un altro,non aveva dimenticato la diserzione attuata durante la surroga al giovane Gullo. Ed anche se il disertare dall’esercito nemico avrebbe dovuto costituire titolo di merito per l’esercito vincitore, a maggior ragione in quanto tale decisione venne presa dopo gli accordi e i contatti avuti con patrioti garibaldini, il nuovo richiamo alle armi fu inesorabile.
Questa volta però siamo nel 1861, Pietro Monaco si arruola ma nella banda del brigante Domenico Straface detto Palma, operante nei suoi amati boschi della Sila.
Il 1862, fu l’anno cruciale per la moglie di Pietro Morelli mentre questo latitava.
Arrestata insieme alla sorella Teresa con il solo scopo di costringere il marito a costituirsi, fu tenuta in carcere da innocente per mesi senza che il suo carceriere, il famigerato maresciallo Pietro Fumel potesse ottenere alcun risultato.
Una volta liberate le due donne, ormai esasperate per quanto accaduto, entrarono in aperto conflitto per contendersi i favori del rispettivo marito ed amante. Teresa per mettersi alla pari con la sorella l’accusa di essersi concessa ripetutamente ai suoi carcerieri.
La calunnia vera o falsa che sia, circola rumorosamente nell’ambiente ristretto della Presila dove Maria godeva di buona reputazione al contrario di Teresa. Comunque, giunte a quel punto le cose non potevano più continuare così. Una sera di quello stesso anno le due sorelle ritrovatesi assieme nell’abitazione di Teresa, vennero furiosamente alle vie di fatto. La sorella maggiore armata di coltello, la minore con una scure.
Quest’ultima ebbe il sopravvento riuscendo a sferrare a Teresa ben 48 colpi di scure uccidendola. L’episodio fece grande scalpore ed ebbe risonanza nazionale e oltre.
Maria, dopo l’omicidio scappò anche lei in Sila dove, dopo furiosi scontri con il marito, con la mediazione degli altri briganti, si riappacificò con tutti, finendo con l’arruolarsi alla comitiva brigantesca assumendo il nuovo nominativo di Ciccilla diventato poi famoso in mezza Europa.
La guerra che Pietro Monaco e la sua banda, il cui organico operativo non superò mai il numero di venti elementi, sferrarono contro tutti i possidenti della Presila e dintorni, durò due anni e fu intensa e cruenta. Non risparmiò nemmeno i vicini di casa, la prestigiosa famiglia Gullo che anzi fu quella più maltrattata. Questa guerra cominciò con una sparatoria attraverso un balcone di casa durante una festa che qui si celebrava e durante la quale fu ferito un loro ospite.
Dopo pochi giorni la Guardia Nazionale bruciò la casa di Monaco. Non passò molto altro tempo e la banda dei briganti bruciò due case e un fienile dei Gullo. E non finì lì perché per fare intendere chi comandava ormai da quelle parti, Pietro Monaco rapì una neonata della famiglia Gullo insieme alla sua balia e al di lei marito. I Gullo per condurre la trattativa del riscatto furono costretti a fare intervenire un altro brigante, ex loro operaio in una fabbrica di liquirizia di Rossano e solamente questi riuscì a portare a buon fine la trattativa dietro congruo compenso.
Un’ altra  operazione eclatante, anche per la modalità della sua organizzazione, fu il rapimento dei ricchissimi cugini Achille Mazzei e Antonio Parisio di Santo Stefano di Rogliano. Fu una vera esibizione di forza compiuta dall’intera banda in pieno giorno, nella piazza principale del paese a danno di due personaggi oltre che ricchi anche vicini ai potentissimi e odiatissimi fratelli Morelli di Rogliano, ex luogotenenti di Garibaldi.
Il riscatto fu tanto ingente da provocare la richiesta di adesione alla banda di numerosi tra quei contadini sbandati e disoccupati. Ma il rapimento che suscitò più scalpore e meraviglia fu quello compiuto ad Acri, non fosse altro che per i suoi aspetti puramente militari. Essendo questo paese ubicato alle porte della Sila, covo di briganti per antonomasia, i presidi militari ivi ubicati  erano numerosi e ben nutriti: un battaglione di bersaglieri forte di novecento uomini, una squadra di carabinieri Reali, un’altra della Guardia Nazionale, una squadriglia di 40 uomini a difesa della famiglia Falcone e altri ancora al comando di altri possidenti locali.
Pietro Monaco, prima dell’azione, studiò attentamente gli aspetti logistici e militari dell’operazione, effettuò sopralluoghi direttamente  sul posto e indirettamente assumendo notrizie attraverso i numerosi informatori(per la polizia manutengoli)ormai diffusissimi in tutta la Presila.  Fu così che con il suo piccolo gruppo di 20 uomini riuscì a farsi beffa dell’enorme apparato militare nemico avendo studiato l’azione di attacco e, sopratutto la strategia di fuga e di ricovero in Sila.
I personaggi, rapiti mentre come d’abitudine nei pomeriggi estivi si recavano a rinfrescarsi ad una sorgente sita alla periferia di Acri, furono: il Vescovo di Tropea e due altri preti, Angelo e Michele Falcone, padre e figlio di quella potente famiglia, altri nobili e benestanti di quel paese, per un totale di 9 persone. La notizia di questa impresa fu diffusa, tra gli altri, da un giornale di Napoli, “L’indipendente”, diretto da Alessandro Dumas il quale vi dedicò numerose prime pagine. Naturalmente l’eco di questi avvenimenti si allargò in tutta Europa.
Ho riportato questi tre episodi della guerra combattuta da Pietro Monaco perché, a mio avviso, da un punto di vista politico, dimostrano abbondantemente come tutto il suo agire risentiva della lezione anarchica impartitagli da Ageslao Milano.
La teoria dell’esempio orgoglioso ed eroico, individuale o del piccolo gruppo capace di sollevare masse oppresse e sottomesse da secoli.
La storia di Pietro Monaco finì e non poteva finire che con un tradimento. I giuda furono De Marco e Celestino, componenti fin dalla prima ora, della sua stessa banda. Questi due, ben conoscendo i rifugi dei loro vecchi amici, si offrirono a portare a termine l’agguato per poter usufruire dei benefici della famigerata legge Pica la quale offriva cospicui vantaggi ai briganti che si costituivano e, soprattutto, a chi collaborava all’eliminazione dei vecchi compagni. Erano i giorni delle festività natalizie, la comitiva, ritrovatasi assieme, fece un abbondante pranzo, dopodiché ognuno si ritirò nel proprio rifugio per dormire.
Pietro Monaco e Ciccilla erano alloggiati in una piccola casella in disparte, la stanza era provvista di un buco attraverso il quale i due, fecero fuoco uccidendo Pietro Monaco e ferendo Ciccilla. Quest’ultima, anche se ferita, riuscì a sottrarsi alla cattura e con una residua parte della banda scappò continuando a latitare ancora per un altro anno. Infine fu individuata e catturata in una grotta a monte del fiume Neto. Fu processata e condannata a morte per fucilazione alla schiena. La condanna fu poi commutata con decreto reale in lavori forzati a vita che Ciccilla scontò nel terribile carcere di Fenestrelle ove morì fra gli stenti all’età di 34 anni.
Doverosamente debbo dichiarare che tutte le  notizie sulla vita di Pietro Monaco e della moglie Ciccilla le ho desunte se non copiate integralmente dall’informatissimo e ben documentato libro di Peppino Curcio “Ciccilla” Pellegrino Editore, frutto di minuziose indagini e ricerche effettuate dall’autore negli archivi di Cosenza, Napoli e Roma durante anni di lavoro. A queste ricerche io non avevo niente da aggiungere tanto è ricco e sovrabbondante di notizie il libro di Curcio. Il mio tentativo, non so se riuscito, è stato quello di riassumere gli avvenimenti più essenziali per renderli più incalzanti e più comprensibili nella loro crudezza. Ho poi cercato di evidenziare meglio gli aspetti politici riguardanti le nascenti dottrine socialiste ed anarchiche che Pietro Monaco apprese direttamente da autentici eroi e martiri nati e vissuti qui nelle nostre terre, apparentemente così lontane da Parigi, Londra e Berlino dove queste teorie ebbero origine.
Il fine che mi proponevo sin dall’inizio con questo mio lavoro non era né letterario né storico e, in fin dei conti nemmeno politico inteso come ulteriori scoperte teoriche. Scopo principale  è stato ed è quello di rivalutare la figura di questo piccolo contadino poco più che ventenne il quale avendo conosciuto per esperienza diretta la corruzione e la violenza dei regimi  borbonico e sabaudo, dichiarò loro guerra aperta insieme a tutti i loro manutengoli locali. Egli combatté fino alla fine, sottraendosi alle lusinghe e agli inganni anche quando, a capo della sua banda, incuteva paura e suscitava rispetto anche in quei regimi ancora in bilico e in cerca di alleanze per rafforzare il loro potere vacillante. Combatté scoprendo doti militari insospettabili in un contadino così giovane e quasi analfabeta. Si battè fino alla fine e solamente con il tradimento quel regime corrotto riuscì ad eliminarlo.
Oggi suscita grande scandalo Silvio Berlusconi per le sue promesse fatte e mai mantenute durante le campagne elettorali in cambio del voto. Garibaldi durante la spedizione dei mille chiedeva alle popolazioni meridionanali di arruolarsi nella sua banda, insomma chiedendo loro di donare la vita, in cambio offriva quelli che erano già i loro diritti defraudati.
Per tutto questo il suo nome è passato nei libri di storia e nelle intestazioni sulle vie e nelle piazze del Paese oltre che in numerosi documenti e lapidi commemorative.
Certamente Berlusconi non avrà tali riconoscimenti anche perché le sue malefatte sono ben poca cosa di fronte al cosiddetto eroi dei due mondi.
Ma, giacchè ci siamo sull’argomento, io credo che invece Pietro Monaco un bel monumento almeno nella piazzetta di Macchia di Spezzano Piccolo se lo meriterebbe di pieno diritto. Se questo mio scritto, sottoposta alla critica e alle correzioni di Coessenza e Ciroma, e soprattutto di Peppino Curcio, massimo conoscitore del nostro eroe, potesse suscitare un movimento intestato per l’appunto a Pietro Monaco avendo lo scopo di raccogliere fondi per consentire la realizzazione di detto monumento, previo concorso fra gli artisti locali, allora sì che riterrei che questa fatica non è stata vana. E giacchè ci siamo, credo che sarebbe ora che questo nostro movimento si occupasse anche della restituzione ai cittadini di Cosenza e dei Casali dei terreni anticamente destinati ad usi civici defraudati poco nobilmente e per nulla onestamente al godimento comune e collettivo delle nostre popolazioni, da parte di alcuni signorotti locali. Creare un collegio di avvocati e di tecnici per potere individuare questi terreni e intentere un processo per ottenere finalmente la restituzione degli stessi con richiesta dei danni provocati da tanti anni di usurpazione.*
Per ora non voglio nemmeno immaginare cosa potrebbe provocare la restituzione all’uso collettivo di questi splendidi terreni silani. Avremo modo di discuterne.
                                                                                                      Franco Bifarella
Cosenza 24/06/2013



*Nel collegio di avvocati potremmo invitare anche Stefano Rodotà in quanto, come cosentino, anch’egli parte lesa e poi per la sua grande autorità di insigne giurista.