di Franco Bifarella
Premessa
Facendo seguito al mio
intervento fatto durante il nostro incontro all’ Auditorium Popolare del
29/5/2013, siccome lo stesso è stato disturbato innanzitutto dalla mia
incapacità di parlare a braccio per gli incipienti ma ormai continui ammanchi di
memoria e poi per la pretesa di Tonino Grano di poter ridurre problemi così
complessi e controversi in una sintesi di dieci minuti( fra non molto saremo
costretti a misurare i danni arrecati a coloro che usano comunicare e dibattere
con estreme sintesi esclusivamente e sconsideratamente solo on line), mi vedo
obbligato per concludere e terminare il discorso, a riassumere il tutto e fare
alcune proposte operative.
Resta ormai assodato,quanto meno
per la Sinistra
come documenta ampiamente il libro di Grano, che il fenomeno BRIGANTAGGIO di
quell’epoca occore collocarlo più fra gli episodi di ribellione sociale che non
in quelli criminali.
Gli autentici episodi criminali,
perpetrati lungamente, nel tempo e nello spazio,dai nobili e dai possidenti
locali, sono consistiti nell’appropriazione dei terreni demaniali della Sila,
destinati da un editto di Carlo D’Angiò del 1333 al solo beneficio delle
popolazioni di Cosenza e dei Casali per “USI CIVICI”, vale a dire per l’uso
comune e collettivo per semina, pascolo e
legnatico, vitali per le famiglie di quei contadini.
Da sempre la “Sinistra” ha
denunciato questi misfatti a parole e per iscritto, buon ultimo il libro di
Tonino Grano, senza che da queste denunce teoriche sia mai scaturito qualcosa
di concreto. Ma noi, dal punto di vista teorico, già sapevamo da gran tempo che
la proprietà è un furto. Il vero problema, di grande attualità, è che tutt’ora
questi terreni, quando non sono stati già venduti, risultano ancora di
godimento e di “legittima proprietà” di questi rapinatori.
Quando Marx ed Engels nel libro:
“India, Cina e Russia”, citatissimo da Tonino Grano, immaginavano e speravano
per queste nazioni che si stavano
avvicinando alla modernità, una doppia rivoluzione che permettesse loro, ancora
immersi in regimi feudali, di poter evitare e saltare gli orrori della fase
capitalistica, e quindi della cruenta fase dell’accumulazione originaria del
capitale, tale eventualità non era stata pensata solo in linea teorica ma era
rafforzata oltre che dai fermenti della rivoluzione borghese in tutta Europa,
anche dalla diffusione in quei grandi e popolosi paesi dei terreni adibiti ad
“USI CIVICI”. In Russia il Mir, in India e Cina, i tanti villaggi che non
conoscevano la proprietà personale e l’uso privato dei terreni che invece
venivano assegnati da un capo-villaggio a rotazione ai contadini che li
coltivavano e in qualche modo conferivano alla collettività i prodotti. Il
gravissimo delitto compiuto dalla nobiltà contro la nostra comunità fin dalle
epoca feudale, poi continuato dalla borghesia nell’epoca sia dittatoriale, sia
democristiana i infine anche in epoca socialistoide, non è stato combattuto
concretamente da nessun regime e nemmeno dalla cosiddetta sinistra, se non a
chiacchiere.
PIETRO MONACO, questo ragazzo di
20 anni, figlio di contadini di Macchia di Spezzano Piccolo, è stato fra i
pochi che in forma così radicale e senza compromessi, con un pugno di coetanei,
tutti del circondario di Cosenza, ha saputo salvare l’onore e l’orgoglio della
nostra gente, da sempre vessata e sottomessa, sconfiggendo sempre in tutte le
azioni da lui intraprese, lor signori, facendosi beffa di tutte le loro
numerosissime forze armate: Guardia Nazionale, Bersaglieri, Carabinieri Reali e
Guardie Private.
Pietro Monaco ha fatto tremare dalla
paura e piangere per i cospicui danni inflitti, quasi tutti i possidenti e nobili
della provincia di Cosenza.
Le implicazioni sociali e politiche
delle azioni del giovane contadino sono state ampiamente dimostrate dalle
numerose e documentatissime ricerche effettuate da tanti storici e soprattutto
da Pietro D’ Ambrosio con il
libro:”Brigantaggio” e con il libro”Ciccilla” da Peppino Curcio. Per quanto
riguarda gli aspetti criminali dello stesso, per comprenderli appieno occorre
contestualizzarli e rapportarli alle feroci e sanguinose repressioni effettuate
sulle nostre popolazioni dalle truppe borboniche, dalle soldataglie piemontesi
e dalle stesse bande garibaldine. Se si mettono insieme le stragi e le violenze
perpetrati da tutti questi eserciti invasori a danno dalle inermi popolazioni
meridionali, le poche uccisioni di Pietro Monaco spariscono.
Il crescendo di violenza e
soprusi subiti da Pietro Monaco da parte di tutti i regimi statuali alternatisi
in questo periodo nel Meridione d’Italia, lo portarono inevitabilmente
all’unica soluzione possibile e praticabile: dichiarare guerra senza quartiere
a tutto e a tutti e specialmente ai signorotti, ai ricchi e ai manutengoli
locali.
PIETRO MONACO.
Nacque a Macchia di Spezzano
Piccolo il 1836 da una famiglia di onesti lavoratori con il padre massaro e la
madre filatrice, attività che permettevano loro una vita modesta ma
sufficientemente tranquilla e sicura. A dimostrare tale tranquillità resta il
fatto che Pietro Monaco, caso raro all’epoca, riesce a frequentare la scuola e ad
imparare a leggere e scrivere.
L’infanzia di questi ragazzi,
come dappertutto nei piccoli villaggi rurali della Presila
cosentina,trascorreva serena, gioiosa e libera, senza la necessità della
stretta sorveglianza dei rispettivi genitori in quanto a sorvegliarli c’era
l’intero villaggio.
Giovinetto, frequenta moltissimo
la Sila insieme
al padre per coltivare quei terreni una volta destinati a usi civici comuni e
gratuiti, ora concessi a pagamento dai signori locali e insieme agli zii
carbonari per imparare ad erigere”cravunere”, fabbriche di carbone di legna,
unica forma di energia dell’epoca. Ed infine, Pietro Monaco andava in Sila a
caccia e a raccogliere funghi e legna da ardere. Insomma, anche se
involontariamente imparando a conoscere i boschi, faceva pratica di
brigantaggio perché all’epoca, non c’erano boschi senza briganti e non c’erano
brigati senza boschi.
Nel 1855 all’età di 19 anni
viene selezionato e richiamato al servizio di leva nell’esercito borbonico. Tale
servizio con la sua durata di tre ani era odiatissimo dalle popolazioni
contadine perché oltre a togliare loro gli affetti, toglieva una forza lavoro
in alcuni casi indispensabile.
Per Pietro Monaco, il passaggio
dalla vita bucolica nel piccolo villaggio e nei boschi della Sila alla caserma
col suo regime di estrema disciplina e violenza e anche, nei periodi di libera
uscita, le frequentazioni nella frenetica vita della metropoli campana, fu
drammatico e traumatico anche se, per certi versi, istruttivo.
A Napoli, all’epoca, esisteva
una nutrita pattuglia di soldati e studenti universitari cosentini che
frequentavano e animavano la vita anche culturale cittadina. Tra questi giovani
oltre a ferventi patrioti cominciavano a circolare anche le prime idee ed i
primi movimenti anarchici e socialisti.
Pietro Monaco conobbe e
frequentò, anche perché arruolato nel suo stesso battaglione, l’anarchico Ageslao
Milano compaesano di San Benedetto Ullano.
Questi si era arruolato con il
preciso proposito di attentare alla vita di re Ferdinando II. Così nel 1856,
durante una parata militare a Napoli, l’anarchico esce dai ranghi, sfodera la
baionetta e sferra due colpi al re senza però ucciderlo. Pietro Monaco ebbe
modo di assistere da vicino a tutta la scena. Ageslao Milano dopo pochi giorni
fu processato e impiccato. Un’altra esperienza ancora più drammatica Pietro
Monaco la visse a proposito della
spedizione di Sapri di Carlo Pisacane. Fra gli organizzatori di questa
avventura, c’era anche il nostro Giovan Battista Falcone di Acri.
Scopo della spedizione era la
sollevazione dei contadini meridionali contro il regime borbonico e contro
l’oppressione sociale di quelle popolazioni. Sia Pisacane che Falcone erano
animati da idee socialiste. Il governo borbonico, avvertito dei fatti,
organizzò una controreazione degli stessi contadini del luogo, spedendo anche
un plotone di soldati fra i quali c’era il nostro amico Pietro Monaco.
Come è risaputo, lo scontro finì
miseramente per i cospiratori. Prima ancora che l’esercito borbonico arrivasse,
i contadini organizzati e aizzati dai preti che avevano avvertito gli stessi
dell’arrivo di presunti briganti, fecero strage dei rivoltosi i quali
militarmente impreparati, male armati e forse senza nemmeno la volontà di
combattere contro coloro che erano venuti a liberare, perirono miseramente.
Pietro Monaco arrivò quando
l’eccidio era appena terminato. Ebbe così modo di assistere alla prima
rivoluzione socialista fallita sul nascere. Forse l’episodio è storicamente
molto modesto per potersi annoverare tra le rivoluzioni.
Per Marx la prima grande
rivoluzione socialista fu la
Comune di Parigi del 1871 che arrivò, anche se brevemente,
fino alla conquista del potere. Altre rivoluzioni definite socialiste
successivamente si alternarono, alcune militarmente trionfanti ma teoricamente
e politicamente fallite. Altre addirittura passate immediatamente dall’altro
campo della barricata.
Tutto sommato, quei 300 giovani
idealisti, disarmati e disarmanti, trucidati in quel di Sansa, meritano a mio
avviso almeno il titolo di primi martiri del socialismo.
Nel 1858, finito il servizio
militare, Pietro Monaco ritorna a Macchia. Qui, considerate le abitudini
acquisite a Napoli, comincia a frequentare una donna di facili costumi del
posto:Teresa Oliverio. Questa sposata con figli, ha anche una sorella di 17
anni, molto bella:Maria Oliverio. Pietro Monaco, pur continuando a trescare con Teresa, in quello stesso anno finisce con
lo sposare la giovanissima sorella Maria.
Nel 1859, non riuscendo ad adattarsi alle vecchie abitudini
contadine, si arruola nuovamente nell’esercito borbonico, per “surrogare” un
rampollo diciassettenne della famiglia Gullo di Macchia, come prevedeva una
legge in vigore all’epoca per tutelare i nobili e i signori locali.
Io non so se tale sostituzione
venne fatta da Monaco per generosità e bonomia verso il giovanissimo erede
della famiglia Gullo o se, invece, la surroga fu concordata per benefici
economici, sicuramente l’episodio dimostra che all’epoca Pietro Monaco, per
ritornare ad arruolarsi, non aveva ancora nessuna intenzione di darsi al
brigantaggio. Ma quel nuovo servizio militare dura poco. Napoli in quel periodo
era in pieno fermento. Era appena deceduto re Ferdinando II e già giungevano
notizie dell’approssimarsi dell’esercito garibaldino. Per questi motivi
nell’esercito borbonico i tradimenti e le diserzioni erano diffusissimi. Anche
Pietro Monaco diserta e rientra a Macchia. Intanto Garibaldi, risalendo lungo
la penisola senza colpo ferire per le diserzioni nell’esercito borbonico
sopradette, giunge fino a Grimaldi dove i fratelli Morelli, patrioti della
prima ora, avevano arruolato un piccolo esercito e preparato una grande
accoglienza. Qui Garibaldi da un balcone della casa Morelli, pronuncia un
discorso memorabile nel quale promette alle popolazioni calabresi nientemeno
che il ripristino degli usi civici, l’abolizione dell’ odiatissima tassa sul
macinato e la riduzione del prezzo del sale. Per quelle popolazioni tali promesse valevano quanto una rivoluzione.
Anche Pietro Monaco si entusiasma
al discorso di Garibaldi ed essendo uomo d’azione, corre subito ad arruolarsi
nelle bande garibaldine.
Per la prima volta però la sua
adesione è fortemente motivata ed infervorata tant’è che con questo stato
d’animo, nelle battaglie di Capua e del Volturno compie tali atti di coraggio e
di eroismo da conquistare sul campo, lui soldato semplice, i gradi di
sottotenente.
Anche questi episodi, oltre a
dimostrare il già citato coraggio ed eroismo, rivelano ancora una volta il suo
altruismo e la sua generosità oltre che le motivazioni sociali e politiche
derivanti dalle lezioni impartitegli durante le frequentazioni a Napoli con i
giovani patrioti anarchici e socialisti quali Ageslao Milano e Giovan Battista
Falcone e altri ancora. Questi ultimi, più con le loro gesta che con le loro
teorie, trasmisero al nostro eroe la consapevolezza della precarietà dello
stato di cose esistenti e la necessità di cambiare o addirittura sovvertire il
tutto.
Finita l’esperienza garibaldina,
Pietro Monaco torna a Macchia ove si
rende conto che nessuna delle promesse fatte da Garibaldi è rimasta in piedi.
Anzi, i suoi luogotenenti, i Morelli, i Baracco, i Berlingeri, diventati ancora
più forti avendo anche acquisito direttamente il comando militare della
situazione, avevano ripristinato le cose peggio di prima.
Garibaldi intanto si era
ritirato a Caprera passando alla storia come un moderno Cincinnato che
rifiutava glorie e prebende. Persino Carlo Marx, Engels e lo stesso Bakunin,
che lo andò ad omaggiare a Caprera, ebbero grande stima di lui. Io credo invece
che egli si ritirò a Caprera per la vergogna delle infinite promesse fatte ai
poveri meridionali senza averne mai mantenuta alcuna.
E credo anche che se Pietro
Monaco lo avesse avuto a portata di mano gli avrebbe fatto pagare caro tutti
quegli inganni.
Ma le disavventure di Pietro
Monaco non sono finite. Trascinato per sei lunghi anni dalla pacifica vita di
villaggio alle più dure esperienze di caserma e di guerra in una metropoli
caotica e politicamente effervescente ed impetuosa, ritornato finalmente a
Macchia, per la quarta volta gli viene recapitata la chiamata alle armi, questa
volta da parte dell’esercito sabaudo.
La burocrazia militare, anche se
passata da un esercito ad un altro,non aveva dimenticato la diserzione attuata
durante la surroga al giovane Gullo. Ed anche se il disertare dall’esercito
nemico avrebbe dovuto costituire titolo di merito per l’esercito vincitore, a
maggior ragione in quanto tale decisione venne presa dopo gli accordi e i
contatti avuti con patrioti garibaldini, il nuovo richiamo alle armi fu
inesorabile.
Questa volta però siamo nel
1861, Pietro Monaco si arruola ma nella banda del brigante Domenico Straface
detto Palma, operante nei suoi amati boschi della Sila.
Il 1862, fu l’anno cruciale per
la moglie di Pietro Morelli mentre questo latitava.
Arrestata insieme alla sorella
Teresa con il solo scopo di costringere il marito a costituirsi, fu tenuta in
carcere da innocente per mesi senza che il suo carceriere, il famigerato
maresciallo Pietro Fumel potesse ottenere alcun risultato.
Una volta liberate le due donne,
ormai esasperate per quanto accaduto, entrarono in aperto conflitto per
contendersi i favori del rispettivo marito ed amante. Teresa per mettersi alla
pari con la sorella l’accusa di essersi concessa ripetutamente ai suoi
carcerieri.
La calunnia vera o falsa che
sia, circola rumorosamente nell’ambiente ristretto della Presila dove Maria
godeva di buona reputazione al contrario di Teresa. Comunque, giunte a quel
punto le cose non potevano più continuare così. Una sera di quello stesso anno
le due sorelle ritrovatesi assieme nell’abitazione di Teresa, vennero
furiosamente alle vie di fatto. La sorella maggiore armata di coltello, la
minore con una scure.
Quest’ultima ebbe il sopravvento
riuscendo a sferrare a Teresa ben 48 colpi di scure uccidendola. L’episodio
fece grande scalpore ed ebbe risonanza nazionale e oltre.
Maria, dopo l’omicidio scappò
anche lei in Sila dove, dopo furiosi scontri con il marito, con la mediazione
degli altri briganti, si riappacificò con tutti, finendo con l’arruolarsi alla
comitiva brigantesca assumendo il nuovo nominativo di Ciccilla diventato poi
famoso in mezza Europa.
La guerra che
Pietro Monaco e la sua banda, il cui organico operativo non superò mai il
numero di venti elementi, sferrarono contro tutti i possidenti della Presila e
dintorni, durò due anni e fu intensa e cruenta. Non risparmiò nemmeno i vicini
di casa, la prestigiosa famiglia Gullo che anzi fu quella più maltrattata.
Questa guerra cominciò con una sparatoria attraverso un balcone di casa durante
una festa che qui si celebrava e durante la quale fu ferito un loro ospite.
Dopo pochi
giorni la Guardia
Nazionale bruciò la casa di Monaco. Non passò molto altro
tempo e la banda dei briganti bruciò due case e un fienile dei Gullo. E non
finì lì perché per fare intendere chi comandava ormai da quelle parti, Pietro
Monaco rapì una neonata della famiglia Gullo insieme alla sua balia e al di lei
marito. I Gullo per condurre la trattativa del riscatto furono costretti a fare
intervenire un altro brigante, ex loro operaio in una fabbrica di liquirizia di
Rossano e solamente questi riuscì a portare a buon fine la trattativa dietro
congruo compenso.
Un’ altra operazione eclatante, anche per la modalità
della sua organizzazione, fu il rapimento dei ricchissimi cugini Achille Mazzei
e Antonio Parisio di Santo Stefano di Rogliano. Fu una vera esibizione di forza
compiuta dall’intera banda in pieno giorno, nella piazza principale del paese a
danno di due personaggi oltre che ricchi anche vicini ai potentissimi e
odiatissimi fratelli Morelli di Rogliano, ex luogotenenti di Garibaldi.
Il riscatto fu
tanto ingente da provocare la richiesta di adesione alla banda di numerosi tra
quei contadini sbandati e disoccupati. Ma il rapimento che suscitò più scalpore
e meraviglia fu quello compiuto ad Acri, non fosse altro che per i suoi aspetti
puramente militari. Essendo questo paese ubicato alle porte della Sila, covo di
briganti per antonomasia, i presidi militari ivi ubicati erano numerosi e ben nutriti: un battaglione
di bersaglieri forte di novecento uomini, una squadra di carabinieri Reali,
un’altra della Guardia Nazionale, una squadriglia di 40 uomini a difesa della
famiglia Falcone e altri ancora al comando di altri possidenti locali.
Pietro Monaco,
prima dell’azione, studiò attentamente gli aspetti logistici e militari
dell’operazione, effettuò sopralluoghi direttamente sul posto e indirettamente assumendo notrizie
attraverso i numerosi informatori(per la polizia manutengoli)ormai diffusissimi
in tutta la Presila. Fu così che con il suo
piccolo gruppo di 20 uomini riuscì a farsi beffa dell’enorme apparato militare
nemico avendo studiato l’azione di attacco e, sopratutto la strategia di fuga e
di ricovero in Sila.
I personaggi,
rapiti mentre come d’abitudine nei pomeriggi estivi si recavano a rinfrescarsi
ad una sorgente sita alla periferia di Acri, furono: il Vescovo di Tropea e due
altri preti, Angelo e Michele Falcone, padre e figlio di quella potente
famiglia, altri nobili e benestanti di quel paese, per un totale di 9 persone.
La notizia di questa impresa fu diffusa, tra gli altri, da un giornale di
Napoli, “L’indipendente”, diretto da Alessandro Dumas il quale vi dedicò
numerose prime pagine. Naturalmente l’eco di questi avvenimenti si allargò in
tutta Europa.
Ho riportato
questi tre episodi della guerra combattuta da Pietro Monaco perché, a mio
avviso, da un punto di vista politico, dimostrano abbondantemente come tutto il
suo agire risentiva della lezione anarchica impartitagli da Ageslao Milano.
La teoria
dell’esempio orgoglioso ed eroico, individuale o del piccolo gruppo capace di
sollevare masse oppresse e sottomesse da secoli.
La storia di
Pietro Monaco finì e non poteva finire che con un tradimento. I giuda furono De
Marco e Celestino, componenti fin dalla prima ora, della sua stessa banda.
Questi due, ben conoscendo i rifugi dei loro vecchi amici, si offrirono a
portare a termine l’agguato per poter usufruire dei benefici della famigerata
legge Pica la quale offriva cospicui vantaggi ai briganti che si costituivano
e, soprattutto, a chi collaborava all’eliminazione dei vecchi compagni. Erano i
giorni delle festività natalizie, la comitiva, ritrovatasi assieme, fece un
abbondante pranzo, dopodiché ognuno si ritirò nel proprio rifugio per dormire.
Pietro Monaco
e Ciccilla erano alloggiati in una piccola casella in disparte, la stanza era
provvista di un buco attraverso il quale i due, fecero fuoco uccidendo Pietro
Monaco e ferendo Ciccilla. Quest’ultima, anche se ferita, riuscì a sottrarsi
alla cattura e con una residua parte della banda scappò continuando a latitare
ancora per un altro anno. Infine fu individuata e catturata in una grotta a
monte del fiume Neto. Fu processata e condannata a morte per fucilazione alla schiena.
La condanna fu poi commutata con decreto reale in lavori forzati a vita che
Ciccilla scontò nel terribile carcere di Fenestrelle ove morì fra gli stenti
all’età di 34 anni.
Doverosamente
debbo dichiarare che tutte le notizie
sulla vita di Pietro Monaco e della moglie Ciccilla le ho desunte se non
copiate integralmente dall’informatissimo e ben documentato libro di Peppino
Curcio “Ciccilla” Pellegrino Editore, frutto di minuziose indagini e ricerche
effettuate dall’autore negli archivi di Cosenza, Napoli e Roma durante anni di
lavoro. A queste ricerche io non avevo niente da aggiungere tanto è ricco e
sovrabbondante di notizie il libro di Curcio. Il mio tentativo, non so se
riuscito, è stato quello di riassumere gli avvenimenti più essenziali per renderli
più incalzanti e più comprensibili nella loro crudezza. Ho poi cercato di
evidenziare meglio gli aspetti politici riguardanti le nascenti dottrine
socialiste ed anarchiche che Pietro Monaco apprese direttamente da autentici
eroi e martiri nati e vissuti qui nelle nostre terre, apparentemente così
lontane da Parigi, Londra e Berlino dove queste teorie ebbero origine.
Il fine che mi
proponevo sin dall’inizio con questo mio lavoro non era né letterario né
storico e, in fin dei conti nemmeno politico inteso come ulteriori scoperte
teoriche. Scopo principale è stato ed è
quello di rivalutare la figura di questo piccolo contadino poco più che
ventenne il quale avendo conosciuto per esperienza diretta la corruzione e la
violenza dei regimi borbonico e sabaudo,
dichiarò loro guerra aperta insieme a tutti i loro manutengoli locali. Egli
combatté fino alla fine, sottraendosi alle lusinghe e agli inganni anche
quando, a capo della sua banda, incuteva paura e suscitava rispetto anche in
quei regimi ancora in bilico e in cerca di alleanze per rafforzare il loro
potere vacillante. Combatté scoprendo doti militari insospettabili in un
contadino così giovane e quasi analfabeta. Si battè fino alla fine e solamente
con il tradimento quel regime corrotto riuscì ad eliminarlo.
Oggi suscita
grande scandalo Silvio Berlusconi per le sue promesse fatte e mai mantenute
durante le campagne elettorali in cambio del voto. Garibaldi durante la
spedizione dei mille chiedeva alle popolazioni meridionanali di arruolarsi
nella sua banda, insomma chiedendo loro di donare la vita, in cambio offriva
quelli che erano già i loro diritti defraudati.
Per tutto
questo il suo nome è passato nei libri di storia e nelle intestazioni sulle vie
e nelle piazze del Paese oltre che in numerosi documenti e lapidi
commemorative.
Certamente
Berlusconi non avrà tali riconoscimenti anche perché le sue malefatte sono ben
poca cosa di fronte al cosiddetto eroi dei due mondi.
Ma, giacchè ci
siamo sull’argomento, io credo che invece Pietro Monaco un bel monumento almeno
nella piazzetta di Macchia di Spezzano Piccolo se lo meriterebbe di pieno
diritto. Se questo mio scritto, sottoposta alla critica e alle correzioni di
Coessenza e Ciroma, e soprattutto di Peppino Curcio, massimo conoscitore del
nostro eroe, potesse suscitare un movimento intestato per l’appunto a Pietro
Monaco avendo lo scopo di raccogliere fondi per consentire la realizzazione di
detto monumento, previo concorso fra gli artisti locali, allora sì che riterrei
che questa fatica non è stata vana. E giacchè ci siamo, credo che sarebbe ora
che questo nostro movimento si occupasse anche della restituzione ai cittadini
di Cosenza e dei Casali dei terreni anticamente destinati ad usi civici
defraudati poco nobilmente e per nulla onestamente al godimento comune e
collettivo delle nostre popolazioni, da parte di alcuni signorotti locali.
Creare un collegio di avvocati e di tecnici per potere individuare questi
terreni e intentere un processo per ottenere finalmente la restituzione degli
stessi con richiesta dei danni provocati da tanti anni di usurpazione.*
Per ora non
voglio nemmeno immaginare cosa potrebbe provocare la restituzione all’uso
collettivo di questi splendidi terreni silani. Avremo modo di discuterne.
Franco
Bifarella
Cosenza
24/06/2013
*Nel collegio
di avvocati potremmo invitare anche Stefano Rodotà in quanto, come cosentino,
anch’egli parte lesa e poi per la sua grande autorità di insigne giurista.