mercoledì 18 aprile 2018


INTERVISTA PER LA RIVISTA "CALABRIA NOI NEL MONDO"
(a cura di Flaviano Garritano)

Di recente avete realizzato un film sulla brigantessa Maria Oliverio alias Ciccilla, chi era? perché avete dedicato particolare attenzione a questo soggetto e non ad altri? Forse perché era del suo paese oppure questo personaggio riesce a rappresentare meglio questo fenomeno del brigantaggio.
Il motivo principale è quello di far conoscere un pezzo della nostra storia dei Casali che a quel tempo era molto nota e di cui se ne era persa la memoria fino al 2000. Anche noi recentemente, con incredulità, abbiamo scoperto che la storia di Ciccilla e di Pietro Monaco, all'epoca quando fu catturata e condannata, era conosciuta in tutta Europa. Conquistò le prime pagine di tutti i giornali non solo italiani, ma anche le prime pagine dei più venduti giornali francesi (come le Journal Illustré – una  sorta di precursore della Domenica del Corriere)  o inglesi (come il Manchester Post). E poi c’è Alexandre Dumas: chi si aspettava che la storia di un brigante e di una brigantessa casalini fosse raccontata sul “L’indipendente” in 7 puntate (tutte in prima pagina) dal più celebre dei romanzieri di ogni tempo. Mai, dopo di allora, i Casali di Cosenza ebbero un tale spazio sulla stampa.
Inoltre Ciccilla affascina perché è una di noi. Una persona normale, rappresenta una donna che viene travolta nel vortice sanguinario e corrotto del marito. Era assolutamente lontana da ogni violenza. Era molto povera, una cattolica praticante, buona, bella, spesso vittima delle violenze del marito. Così viene descritta dalle vicine di casa nei processi.
Dalle ricerche successive si intuiscono una serie di cose che ce la rendono ancora più simpatica. Probabilmente non riusciva ad avere figli. Un’onta per quei tempi. Tradita dalla sorella che viveva senza marito con tre bambini. Il sospetto che fossero i figli di Pietro Monaco è fondato perché il marito di Teresa non c’è, viveva da anni in Sicilia, lontano. E poi quel triste contratto firmato davanti al notaio Alfonso Gullo, tra il padre di Ciccilla e Pietro Monaco in cui, vista l’estrema povertà, il padre impegna la casa se entro cinque anni non riesce a pagare 100 ducati di dote.
Colpisce anche come l’esasperazione possa trasformare una persona normale in una sanguinaria brigantessa, una cavallerizza, una persona capace di rubare, uccidere, ricattare, sparare.
Quando l’associazione Prometeo88 mi propose di girare un film mi sembrava di realizzare un sogno. Come se dovessi materializzare quello che avevo solo immaginato. Accettai subito e stesi in poco tempo la prima sceneggiatura che fu necessariamente e concordemente stravolta dagli altri registi costretti a stare con i piedi per terra per l’esiguità del budget.
Peppino Curcio, storico, ha scritto molti libri e articoli sui briganti, ma da dove ha tratto questa passione per questi "briganti casalini"?
Chiariamo subito, sono laureato in Scienze Politiche e l’indirizzo di laurea non è quello storico, ma politologico. Ma già la mia tesi in Scienza dell’Amministrazione mi offrì la possibilità di un approfondimento storico che mi appassionò.
Contemporaneamente alla tesi aiutai mio zio, Pietro D’Ambrosio, a scrivere il suo libro sul brigante Pietro Monaco e sua moglie Ciccilla. Con mio zio è arrivata la passione per la ricerca storica e la conoscenza delle nostre radici. Ovvero guardare gli eventi storici ribaltando il modo di leggere la Storia partendo non dai grandi eventi, ma dalla nostra storia. L’unità d’Italia, i mille, il 1848, Napoleone, il risorgimento, la resistenza, il fascismo. Tutti macroeventi che se osservati da Cosenza o dai Casali o addirittura da casa mia, assumono un altro fascino e tutto diventa decisamente meno noioso.
Non ho poi scritto “molti” libri, appena due, o forse uno, perché il secondo, “Briganti casalini” si integra ed è un antefatto del primo.
Ma per scrivere “Ciccilla. Storia della brigantessa Maria Oliverio del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva” ho dato l’anima. Ho frequentato., in circa 10 anni, e per decine di volte l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, gli Archivi di Stato di Napoli (spesso anche inutilmente), Cosenza e Catanzaro; la biblioteche Nazionali di Napoli e Cosenza, la nostra Biblioteca Civica; anche l’archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito ho frequentato molto spesso. Devo dire che se non avessi avuto la passione per la storia e l’indispensabile entusiasmo per la ricerca non avrei mai potuto mettere insieme l’enorme mole di foto digitali di fonti documentarie e riuscire a fare la sintesi che il mio libro rappresenta.
In particolare, chi erano questi "briganti casalini"?
L’aggettivo casalini, riferito ai briganti dei casali di Cosenza, non è inventato, ma l’ho spesso incontrato negli interrogatori dei processi. E’ curioso che questa identificazione precisa veniva da testimoni che provenivano da Acri, Luzzi oppure da Rogliano, ovvero appena fuori quel circuito di paesi che sono intorno a Cosenza, in particolare quelli che hanno alle spalle la Sila.
Nel libro “Briganti Casalini” si raccontano due vicende. Una è un antefatto del libro Ciccilla che approfondisce la storia della vittima di Ciccilla: la sorella Teresa. e scopro i motivi dell’odio che la portano a uccidere.
Alla seconda storia ho voluto dare per titolo il soprannome di una vittima dei briganti che spesso non vengono messi nella giusta luce: Pagacota. La vicenda è dedicata a uno dei briganti più violenti, Vincenzo Marrazzo Esposito. Si racconta la storia di un omicidio avvenuto prima che il brigante entrasse nella banda Monaco.
E’ interessante perché, in entrambe le storie, gli intrallazzi del potere che portano all’assoluzione dei colpevoli sono talmente evidenti e palesi da essere paradigmatici del clima che si respirava quando si unì l‘Italia e quanto erano condizionati quei giudici dei palazzi della giustizia di Cosenza e dei suoi casali.
Leggendo i suoi libri, frutto di meticolose ricerche, sembra di rivivere quei periodi ma vorremmo capire : Lei da che parte sta
La sua non è una domanda lecita, rappresenta quello che uno storico non dovrebbe mai fare, ovvero guardare un fatto con il metro di una parte politica. Uno storico dovrebbe sforzarsi di guardare in maniera oggettiva quello che le fonti primarie dimostrano. Il vero dramma dell’incomprensione e del mancato approfondimento del brigantaggio è proprio l’esigenza di stare da una parte. Come se si dovesse convincere qualcuno, o se si dovesse andare alle elezioni per votare un filo piemontese o un filo borbonico. Quindi spero di stare dalla parte della Storia e cerco di dare elementi, mostrare documenti e raccontare fatti per capire il brigantaggio e perché è esistito un fenomeno tanto pervasivo, complesso e violento.
Se in qualche tratto del libro posso aver dato una interpretazione di parte spero di averlo fatto in modo palese e chiaro dividendo le opinioni o le ipotesi dai fatti, in modo da lasciare ai miei lettori una libera interpretazione delle fonti documentarie.
Alcuni scrittori descrivono i briganti come eroi altri come feroci assassini; si leggono racconti di rapine, riscatti, omicidi ma la verità dove sta?
Ogni brigante ha la sua storia. Parteggiare per una parte politica provoca proprio quello che la sua domanda sottintende, ovvero considerare tutti i briganti da una stessa parte politica. Questo è palesemente falso. Monaco è prima filo piemontese, poi contro i patrioti e poi per conto suo. Nel suo caso, a seconda del periodo, è piemontese o antipiemontese o del tutto autonomo.
Schiere di neri briganti seguirono i mille, come schiere di briganti seguirono Borges prima che venisse ucciso a Tagliacozzo. Quindi la verità sta nella ricerca e nello studio delle fonti documentarie (come i processi), la verità è che la comprensione di un fatto implica una ricerca, uno studio e un approfondimento prima di dire se un brigante sta da una parte politica o è semplicemente un violento.
Ha dei libri in cantiere per il futuro oltre quelli che mi ha già accennato?
Da quando ho scritto Ciccilla non ho mai smesso di ricercare perché troppo grande è il non conosciuto e il non indagato di questo particolarissimo aspetto della storia cosentina. Con una differenza, rispetto al passato: ho l’aiuto e la collaborazione dell’amico Paolo Rizzuti con il quale condivido la passione, lo studio e la ricerca (e quindi si raddoppia la conoscenza). Con lui ho scritto Briganti Casalini e con lui scriverò il secondo volume e spero pure un terzo.
Il prossimo libro riguarda personaggi di quel periodo le cui storie chiariscono proprio quel che si è detto circa il parteggiare per una parte politica. In particolare il libro porrà l’attenzione verso un prete patriota e un parroco filoborbonico dei quali ho accennato in una scena del film Ciccilla.
Il primo è Don Michele Leonetti, patriota già vittima dei briganti, che segnala al maresciallo Fumel e fa arrestare 50 briganti di Serra Pedace, per questo verrà barbaramente ucciso con una fucilata in bocca da tre dei briganti che denunciò.
Il Parroco è, invece Don Bartolo D’Ambrosio un personaggio davvero sui generis. Rigidamente filo borbonico e antiunitario fu protagonista nel 1848 delle occupazioni delle terre in Sila (località Carlo Magno) usurpate dal barone e patriota Berlingieri. Comico e originale il suo atteggiamento politico durante il plebiscito del 1860 e le sue scaramucce con il patriota e garibaldino Giovan Battista Adami (una storia alla Guareschi, ma 100 anni prima). All’insediarsi del potere dei Savoia e in seguito a una rivolta borbonica fu arrestato e rinchiuso nelle carceri di Catanzaro per un anno, senza processo. Interessanti anche le relazioni con il brigante Giovan Battista Piluso alias Napulione, suo nipote, figlio della sorella Emanuella D’Ambrosio.
Il libro approfondirà anche un altro cruciale periodo. Con Paolo Rizzuti abbiamo approfondito e ricostruito quanto avvenne a Pedace, a Serra Pedace e a Iotta (altro casale dell’antica bagliva di Pedace) durante il cosiddetto “Sacco di Pedace” (così lo chiama un conosciuto saggio dello storico celichese Gustavo Valente) del 1806 e le relative storie brigantesche legate ai personaggi protagonisti di quei lontani eventi: come lo sconosciuto e sanguinario brigante RoccoAntonio De Luca o il celebre brigante (stragista si direbbe oggi) Giacomo Pisano alias Francatrippa (citato da Dumas, da Stendhal, ritratto da una pittrice francese dell’800, e da molti gli storici contemporanei), o come Lorenzo Martire protagonista della reazione borbonica del 1799 e dell’esercito della Santa Fede guidato dal Cardinale Ruffo e della conseguente guerra contro i francesi.
Un terzo libro, ancora nemmeno in cantiere, sarà quello degli ultimi capi briganti casalini: Giovanni Sijinardi di Pietrafitta e Giovanni De Luca di Pedace attivi in un’unica banda dal 1865 fino al 1876 (11 anni !?!). Su questa banda c’è un velo troppo fitto. Pochi processi, si intuiscono gravissime forme di repressione. Eppure è l’ultima banda. Si dice che Giovanni De Luca sia l’unico capo brigante che sia riuscito a scappare alla giustizia e a partire per l’America. Chissà se riuscissi a trovarne una traccia. Rimangono, infine, da indagare meglio i terribili briganti casalini che agirono nel lungo periodo dal 1820 al 1850. Dei briganti di questo lungo periodo conosciamo meglio Giosafatte Talarico perché ne parlò Nicola Misasi anche lui di Parenti come il brigante, ma c’erano tanti altri capi briganti ben più feroci e con più lunga carriera criminale: Magarò di Spezzano Grande (oggi “della Sila”), Papaianni di Serra Pedace, Coscarella alias Palumbo di Torzano (oggi Borgo Partenope), ecc ecc ecc. Tanti, troppi.
Quando è iniziato il fenomeno del brigantaggio e da chi è stato promosso o istigato nelle nostre terre?
Dumas, che conosce bene proprio i briganti casalini, dice che il fenomeno è endemico. Una grave affermazione, ma vera. Vuol dire che in ogni età qui ci sono stati briganti che in ogni tempo hanno condizionato il potere e le comunità di appartenenza. Un recente e bel libro “Il prefetto e i briganti” di Giuseppe Ferraro si fa una descrizione del paesaggio dei casali visto dal Prefetto Enrico Guicciardi. Accanto alla incredibile cura e bellezza dei luoghi, segnala il terribile clima di violenza al punto che le donne camminavano “attaccate” ai mariti per paura che subissero violenza.
C’è anche una celebre immagine nella Poesia di Padula “La notte di Natale” che descrive la Madonna nell’atteggiamento che Guicciardi descrive. La poesia dice “… toccapiedi allu vecchiottu, ppe lla strada spara e scura …” vuol dire che la Madonna veniva protetta da San Giuseppe camminandogli così vicino tanto da toccare con i suoi passi i piedi dell’uomo. Un clima di estrema violenza quotidiana generata da una condizione semplice per chi delinque: l’estrema facilità di sfuggire alla espiazione della pena. Avere un territorio alle spalle immenso e lontano da ogni comunicazione stradale aiuta non solo la latitanza, ma anche la nascita e la crescita del fenomeno del brigantaggio. Come lo stesso Misasi ci fa capire nel suo libro su Giosafatte Talarico i briganti latitanti hanno relazioni stabili con il potere e la comunità d’appartenenza anche per il semplice fatto che “gestivano” l’uso della forza in un territorio.
Restando su Padula, sul giornale da lui diretto, “Il Bruzio”, si chiese e scrisse come mai Francesco Martire (a quel tempo amministratore dei beni del barone Berlingieri e direttore del giornale “Cronache di Calabria” e negli anni successivi sindaco di Cosenza e ministro) non avesse mai subito un’aggressione, un furto, uno screzio da parte del brigante Pietro Monaco. Per questa “illazione” subì un processo per calunnia e dovette chiudere “Il Bruzio”. Ma aveva ragione da vendere.
L’endemicità crea una serie di condizioni di convivenza, di interrelazioni tra la comunità e chi è bandito, brigante o “fuoriuscito” (termine con cui efficacemente venivano chiamati i briganti). Sappiamo che erano i briganti a portare il santo patrono nelle processioni, che la Madonna del Carmine era la loro protettrice, che alcuni mestieri come il carbonaio comportava relazioni molto strette con i fuoriusciti (e questo spiega perché a Serra Pedace, paese con molti carbonai, ci fossero molti briganti). Un'altra conseguenza dell’endemicità del fenomeno sono le relazioni parentali tra briganti: si sposavano tra di loro. Ho ritrovato, addirittura, una lontana relazione parentale tra Giacomo Pisano Francatrippa e Pietro Monaco. Come appare curioso che il vestito dei briganti fosse nero, uguale nei decenni, come una divisa (e questo sì, vale per tutti i briganti), ci si vestiva da briganti. Discorso da approfondire riguarda gli “stili”, cioè i pugnali dei briganti, alcuni indizi portano a credere che erano distinti a seconda dell’importanza del brigante all’interno della stessa banda.
Oggi, sorge spontaneo a noi lettori chiederci se questo fenomeno si sia esaurito o ha cambiato nomi e vesti storiche?
No. Non c’è nulla di simile oggi. Credo che il brigantaggio sia stato un fenomeno che si è ancora lontani dal coglierne la portata. Erano in relazione con il potere e nello stesso tempo lupi, uomini con una relazione simbiotica con la natura, le montagne e il paesaggio. Il romanticismo/verismo con cui Nicola Misasi guarda ai briganti è più che giustificato, pur se non ha nulla di storico. Per in grande scrittore (aspetto una sua rivalutazione) la Sila senza i briganti era come la notte senza le stelle. Misasi considerava i briganti dei Robin Hood si sforzava di trovare angoli di bontà inventandosi storie inverosimili. Forse le organizzazioni mafiose si avvicinano a quel mondo quando in alcune zone, come i briganti, hanno il monopolio dell’uso della forza e della violenza in sostituzione dello Stato. Ma nulla di paragonabile.
Chi vuole conoscere e studiare questo periodo storico da dove può iniziare i suoi studi?
Credo che pochi siano i libri che possano aiutare davvero a capire. Le cosa da esplorare sono troppe. Consiglio un semplice manuale di Storia che inquadri il periodo e che dia le basi su come ricercare per capire cosa sono le fonti primarie e quelle secondarie e che cos’è la Storia.
Se lo studioso è calabrese gli chiederei di partire dal suo cognome o dal cognome della madre, delle nonne e dei nonni e cominciare a indagare se tra i propri parenti ci siamo briganti o vittime di briganti. Poi andrei all’archivio di Stato di Cosenza o di Catanzaro (il fondo dei processi si trova a Lamezia Terme) e cercherei delle corrispondenze nelle banche dati (digitali o cartacee) che gli archivi forniscono. Moltissimi troveranno che i propri parenti furono coinvolti in vicende brigantesche. Poi lasciare le curiosità invada i loro cuori. Agli altri consiglio di approfondire la storia di un qualsiasi capo brigante e ricercare, leggere e trascriverne i processi e cominciare dai fatti descritti a indagare tutte le relazioni possibili soprattutto con il territorio, i potenti del tempo, le case dove abitava, i luoghi dove furono commessi i delitti e squarciare sempre più quel velo che si sta aprendo sempre più.
Le pongo un'ultima domanda . Mettiamo il caso che Lei domani mattina si alza e si trova nel 1860, nel mezzo di una battaglia tra i Borbone e i Savoia: quale brigante vorrebbe essere, perchè in fondo penso si sente anche tale oggi, e chi difenderebbe o meglio chi combatterebbe?
Da quanto ho detto fin ora avràcapito che non ho trovato briganti buoni con cui identificarsi. Ma tra i tanti uno che mi è sembrato il più simpatico è un prete di Perito, si chiamava Raffaele De Marco, che nel 1848 per stare dalla parte dei contadini e per l'unità d'Italia, si spoglia della tonaca, si veste da brigante e, al suono del tamburo, alla testa di 200 pedacesi occupa le terre a Lorica, proprio dove oggi c'è il lago Arvo.

giovedì 15 febbraio 2018

Intervista a Peppino Curcio sul libro Ciccilla

Quattro chiacchiere con...

Libera discussione con Peppino Curcio scrittore, storico ed autore del libro "Ciccilla", storia della brigantessa Maria Oliverio e della sua Banda. I risvolti storico-politici illustrati dall'autore.
Intervista di Francesco Marano.

D:Come nasce Ciccilla?

R:Ciccilla nasce, come ho scritto nell’introduzione al mio libro, dalla prosecuzione del lavoro di ricerca iniziato da mio zio Pietro D’Ambrosio. Una ricerca che aveva coinvolto e appassionato anche me. Mio zio aveva ritrovato una serie di interessantissimi indizi riguardanti la banda di briganti capeggiata da Pietro Monaco e su Ciccilla.
Il lavoro di ricerca di mio zio si svolse soprattutto nell’Archivio di Stato di Cosenza (che aveva riordinato a quel tempo solo i documenti provenienti dalla Prefettura, ma non gli atti dei processi), su alcuni giornali dell’epoca e su fonti tramandate oralmente nel suo paese, Serrapedace, paese di residenza della gran parte dei componenti della comitiva di briganti.
Mio zio non aveva potuto consultare due opere di approfondimento, perché postume alla sua ricerca. Si tratta di strumenti importantissimi e indispensabili per chiunque voglia fare studi su questo argomento: i volumi sulle “Fonti per la Storia del Brigantaggio post-unitario conservate nell’Archivio Centrale dello Stato – Tribunali Militari Straordinari” a cura di Loretta De Felice (tra l’altro, l’autorevole autrice, che sfoglia migliaia di processi di briganti da lei riordinati, concentra la sua attenzione proprio su Ciccilla - si veda a tal proposito la nota a pagina 42 del mio libro e la pagina 449 dei suoi volumi) e il volume, uscito nel 2004 a cura di Flavio Carbone, sulle fonti documentarie provenienti dall’Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Il mio lavoro di approfondimento inizia da queste due opere che individuano le fonti primarie che si trovavano a Roma e poi prosegue a Napoli presso l’Archivio di Stato in via Egiziaca a Pizzofalcone e presso la Biblioteca Nazionale nella sezione Lucchesi Palli dove ho scoperto gli articoli di Dumas riguardanti Pietro Monaco e sua moglie.
Un altro motivo di interesse verso questa Storia riguarda il paesaggio calabrese. La Storia di Pietro Monaco si conclude nel fondo di un burrone. Una fucilata del suo luogotenente più fidato lo fulmina. La storia orale ha tramandato che Ciccilla tagliò la testa al marito morto per evitare che altri facessero una tale crudeltà, e la bruciò il un castagno monumentale. Sia la casella dove fu ucciso sia il castagno sono poco distanti da una mia piccola proprietà il cui paesaggio intendo valorizzare perché è intriso di altre microstorie interessanti e belle riguardanti altri periodi storici, in particolare: è il luogo dove nel 1943, ancora sotto il regime fascista, fu nascosto da mio padre e da mio nonno, Pietro Ingrao (dirigente politico antifascista e nel 1978 futuro Presidente della Camera dei Deputati, durante il sequestro Moro); inoltre questo paesaggio è poco distante (e meglio conservato) da quello dove scelse di passare gli ultimi giorni della sua vita il più importante di tutti i calabresi, l’Abate Gioacchino da Fiore, morto a Canale di Pietrafitta nel 1203.
Il terzo motivo è la voglia di comunicare agli altri la storia di questa donna così intrigante e complessa. Una storia che è al tempo stesso feroce e delicata, una storia di violenze e di intrighi, ma anche di passioni amorose e di ricatti inconfessabili. Il bene e il male non sono mai da una parte sola. Ogni personaggio del mio libro ha aspetti positivi e aspetti negativi che mette in luce. Somiglia molto a una storia di mafia dei giorni nostri dove il potere costituito viene a patti con il potere criminale.
Ultimo, ma non per importanza è la rivelazione di quanto le mie ricerche hanno fatto venire alla luce dopo 150 anni di oblio, ovvero gli importanti personaggi coinvolti in prima persona in questa vicenda, in particolare, il più noto dei romanzieri, Alexandre Dumas e il patriota ed eroe Giuseppe Sirtori, Capo di Stato Maggiore dei “Mille” di Garibaldi e Presidente della Commissione Parlamentare contro il Brigantaggio, quella commissione che produsse la famigerata Legge Pica.


D:Nel libro si narra la storia di Maria Oliverio, ma il sottobosco di personaggi è notevole. E’ un intrecciarsi di destini che hanno come denominatore unico il solo fenomeno del brigantaggio?

R:No, non solo brigantaggio, sullo sfondo c’è anche la società calabrese (e dei casali di Cosenza in particolare) di quel tempo che fa i conti con l’estrema povertà e un’economia certamente di sussistenza, ma nello stesso tempo variegata e articolata. Nella Storia che racconto c’è una classe contadina consapevole dei propri diritti che rivendica gli usi civici delle terre silane. I briganti di Serrapedace sono tutti dei carbonari che fruiscono dell’uso civico del legname, configgono con uno dei protagonisti dell’avanzata di Garibaldi, ovvero, occupano la difesa del barone Guzzolino, vicinissimo al Governatore Morelli, ritenendola una terra usurpata agli usi civici degli abitanti dei casali. L’ispiratore (ma non attore protagonista) di questa rivolta è il prete Bartolo D’Ambrosio il quale fu arrestato e detenuto senza processo per oltre un anno, la causa in appello de parroco, dichiaratamente filo borbonico, fu la prima a essere istruita della neonata Corte d’Appello di Catanzaro. In questo unico caso ho ritrovato una relazione tra la rivolta sociale e politica e il fenomeno del brigantaggio.
Nei miei studi le altre rivolte contadine che avvengono in quel periodo nei casali nulla hanno a che fare con il brigantaggio, anzi ho trovato tra i documenti d’archivio, come accade, ad esempio a Celico e a Rogliano, che in questi luoghi i contadini chiedono alle autorità la bandiera tricolore per portarla alla testa della loro protesta. Un comportamento che sa di eroico e fortemente patriottico se pensiamo alla truffa delle terre promesse da Garibaldi e negate immediatamente dal Governatore Donato Morelli.
Per il resto il fenomeno del brigantaggio in queste contrade, più che una rivolta, appare molto simile al fenomeno mafioso. Gli intrecci con il potere ai suoi più alti livelli coinvolgono direttamente il Governatore e le persone a lui vicinissime, come il rapito Achille Mazzei (fratello del noto patriota Raffaele e figlio di Giuseppe altro martire del Risorgimento morto nei moti dell’Angitola del 1848) che parla del legame con la Banda Monaco nella sua deposizione al processo per il suo rapimento. Dopo una campagna di stampa nazionale (si veda Il Bruzio del 13 aprile 1864. In un breve articolo Achille Mazzei si difende dai sospetti di essere il mandante del mancato rapimento del giudice Nicola Nicoletti facendo riferimento a due articoli: La Borsa del 17 ottobre del 1863 e Il Contemporaneo di Firenze del 18 marzo del 1864 che accusanAchille Mazzei di essere coinvolto nel tentativo di rapimento del giudice Nicola Nicoletti.

D:Dalle risposte che mi dai e che non ritrovo nel tuo libro deduco che le tue ricerche sono continuate.

R:Sono continuate e continuano: è come un virus che mi ha colpito indelebilmente. Ho scoperto nuovi intrecci, soprattutto riguardanti il periodo che va dal passaggio di Garibaldi al maggio del 1862, quando il fenomeno del brigantaggio ha altri protagonisti e altri obiettivi.

D:Credi che Giuseppe Garibaldi nella sua avanzata nel territorio calabrese ebbe vita facile? Fu favorito da facili promesse mai mantenute? Il Brigantaggio aveva legami con i borboni?

R:Garibaldi ebbe la strada spianata da decenni di attività antiborbonica nella provincia di Cosenza. Mi riferisco soprattutto alle rivolte del 1848 scoppiate in ogni angolo della provincia o alla rivolta di Cosenza del 1844 e al successivo eccidio dei Fratelli Bandiera. O alle imprese dei singoli patrioti che immolarono le loro vite in imprese coscientemente impossibili, come Giovan Battista Falcone triunviro nella spedizione dei 300 guidata da Pisacane o Agesilao Milano che cerca di uccidere il re borbone nel bel mezzo di una parata militare.
Si deve aggiungere una intensa attività segreta della Massoneria che prepara il campo corrompendo e minando alle radici la fedeltà delle burocrazie amministrative e militari borboniche, che ha come protagonisti, a partire dal 1856, i fratelli Donato, Vincenzo e Carlo Morelli e Raffaele Mazzei.
Il frutto di questa attività fu la battaglia, mai svolta, di Agrifoglio. Mai svolta non perchè non ci furono i presupposti o la voglia di combatterla da parte dei patrioti cosentini. Nei giorni precedenti, quando la forte Armata del Generale Ghio saliva la penisola per meglio rispondere all’avanzata dei mille e per aggregare le truppe di stanza a Catanzaro e Cosenza, la mobilitazione antiborbonica fu davvero straordinaria, documentata da migliaia di adesioni spontanee da parte di ogni ceto sociale. Se si fosse davvero svolta quella battaglia probabilmente si sarebbe comunque vinta.
Ma la vera battaglia si svolse con gli intrighi, i ricatti, i sotterfugi, le prebende e le promesse. La battaglia fu vinta, per usare un eufemismo, “a tavolino”. Ma la resistenza borbonica non scomparve affatto. Anzi. Questa parte di Storia da me approfondita scopre alcune vicende relative a quel che successe negli anni successivi. Come si difese quel potere e le centinaia di personaggi influenti e potenti che erano la “classe dirigente” del sistema di potere borbonico.
Quando nel mio libro faccio un cenno al brigante Leonardo Bonaro, ucciso dai luogotenenti della banda Monaco, scopro solo la punta di un iceberg di quello che fu l’attività filo borbonica in armi che ci fu nella provincia di Cosenza. In questi mesi di ricerche e approfondimenti ho fatto nuove scoperte inerenti quel periodo. Ho già fatto riferimento, nella seconda domanda, all’arresto di Bartolo D’Ambrosio. Aggiungerei il terribile omicidio del prete Michele Leonetti, il quale segnalò a Fumel l’attività della banda brigantesca di Serrapedace e per questo fu barbaramente ucciso nel suo orto di casa con una fucilata in bocca. Interessante il collegamento di questa banda con la più vasta rivolta filo borbonica che vedeva alla testa Padre Clemente da Sersale e che ebbe il suo acme nell’assalto a Figline (piccolo paesino molto vicino a Rogliano, sede del Governatore) come meticolosamente documentato dal processo che ne seguì.
Non riesco, senza essere supportato da un approfondimento adeguato (citando fonti documentarie e fonti secondarie) a continuare a fare affermazioni che potrebbero apparire astruse se non legate al contesto. Spero che io stesso, o altri approfondiscano meglio questi anni decisivi per la formazione dell’Unità italiana. 

Quanto alle promesse non mantenute da Garibaldi o meglio alle promesse fatte ai garibaldini, sarei più cauto. Sicuramente non furono date le terre ai contadini per diritto e questo è un fatto assodato. Ma quanti dei garibaldini che seguirono Garibaldi ebbero un posto di lavoro come guardiano o come Carabiniere? Quanti ebbero favori? Quanti furono successivamente favoriti in vario modo per aver seguito Garibaldi nella sua impresa, a quanti fu data libera opportunità di saccheggio nel corso dell’avanzata verso Napoli? Domande che non troveranno mai facili risposte, ma che devono essere poste perché il tempo degli storici di parte spero sia finito e si possa guardare alla Storia per quella che è, per quanto possibile distinta da opinioni preconcette.

D:Quali sono le attuali ricerche sul fenomeno del brigantaggio che ritieni interessanti e che vuoi comunicarci, anche solo per accenni.

R:Non dico una novità nell’affermare, come ci dice Alexandre Dumas, che il fenomeno del brigantaggio nei casali intorno a Cosenza è endemico. Se questa affermazione risponde al vero la mia curiosità mi spinge a indirizzare le ricerche verso quel che successo prima del 1860 e negli anni successivi al 1864 ovvero dopo la scomparsa della banda Monaco. Infatti, il fenomeno continua, si acuisce e finisce quasi completamente solo intorno al 1873 con la fine dell’ultimo capobanda: Giovanni Sijnardi.
Infine, ho ritrovato, insieme ad altri “interessanti” banditi, come quei briganti di Casole descritti da Dumas e perseguitati fino alla fine del 1859, anche il Generale Borbonico Caracciolo che scende da Napoli preoccupato per l’ordine pubblico di queste contrade.