INTERVISTA PER LA RIVISTA "CALABRIA NOI NEL MONDO"
(a cura di Flaviano Garritano)
(a cura di Flaviano Garritano)
Di recente avete realizzato un film sulla brigantessa Maria
Oliverio alias Ciccilla, chi era? perché avete dedicato particolare attenzione
a questo soggetto e non ad altri? Forse perché era del suo paese oppure questo
personaggio riesce a rappresentare meglio questo fenomeno del brigantaggio.
Il motivo principale è quello
di far conoscere un pezzo della nostra storia dei Casali che a quel tempo era molto
nota e di cui se ne era persa la memoria fino al 2000. Anche noi recentemente,
con incredulità, abbiamo scoperto che la storia di Ciccilla e di Pietro Monaco,
all'epoca quando fu catturata e condannata, era conosciuta in tutta Europa. Conquistò
le prime pagine di tutti i giornali non solo italiani, ma anche le prime pagine
dei più venduti giornali francesi (come le Journal Illustré – una sorta di precursore della Domenica del
Corriere) o inglesi (come il Manchester
Post). E poi c’è Alexandre Dumas: chi si aspettava che la storia di un brigante
e di una brigantessa casalini fosse raccontata sul “L’indipendente” in 7
puntate (tutte in prima pagina) dal più celebre dei romanzieri di ogni tempo.
Mai, dopo di allora, i Casali di Cosenza ebbero un tale spazio sulla stampa.
Inoltre Ciccilla affascina perché
è una di noi. Una persona normale, rappresenta una donna che viene travolta nel
vortice sanguinario e corrotto del marito. Era assolutamente lontana da ogni
violenza. Era molto povera, una cattolica praticante, buona, bella, spesso
vittima delle violenze del marito. Così viene descritta dalle vicine di casa
nei processi.
Dalle ricerche successive si
intuiscono una serie di cose che ce la rendono ancora più simpatica.
Probabilmente non riusciva ad avere figli. Un’onta per quei tempi. Tradita
dalla sorella che viveva senza marito con tre bambini. Il sospetto che fossero
i figli di Pietro Monaco è fondato perché il marito di Teresa non c’è, viveva
da anni in Sicilia, lontano. E poi quel triste contratto firmato davanti al
notaio Alfonso Gullo, tra il padre di Ciccilla e Pietro Monaco in cui, vista
l’estrema povertà, il padre impegna la casa se entro cinque anni non riesce a
pagare 100 ducati di dote.
Colpisce anche come
l’esasperazione possa trasformare una persona normale in una sanguinaria brigantessa,
una cavallerizza, una persona capace di rubare, uccidere, ricattare, sparare.
Quando l’associazione
Prometeo88 mi propose di girare un film mi sembrava di realizzare un sogno.
Come se dovessi materializzare quello che avevo solo immaginato. Accettai
subito e stesi in poco tempo la prima sceneggiatura che fu necessariamente e
concordemente stravolta dagli altri registi costretti a stare con i piedi per
terra per l’esiguità del budget.
Peppino Curcio, storico, ha scritto molti libri e articoli
sui briganti, ma da dove ha tratto questa passione per questi "briganti
casalini"?
Chiariamo subito, sono laureato
in Scienze Politiche e l’indirizzo di laurea non è quello storico, ma politologico.
Ma già la mia tesi in Scienza dell’Amministrazione mi offrì la possibilità di un
approfondimento storico che mi appassionò.
Contemporaneamente alla tesi
aiutai mio zio, Pietro D’Ambrosio, a scrivere il suo libro sul brigante Pietro
Monaco e sua moglie Ciccilla. Con mio zio è arrivata la passione per la ricerca
storica e la conoscenza delle nostre radici. Ovvero guardare gli eventi storici
ribaltando il modo di leggere la Storia partendo non dai grandi eventi, ma dalla
nostra storia. L’unità d’Italia, i mille, il 1848, Napoleone, il risorgimento,
la resistenza, il fascismo. Tutti macroeventi che se osservati da Cosenza o dai
Casali o addirittura da casa mia, assumono un altro fascino e tutto diventa
decisamente meno noioso.
Non ho poi scritto “molti”
libri, appena due, o forse uno, perché il secondo, “Briganti casalini” si
integra ed è un antefatto del primo.
Ma per scrivere “Ciccilla. Storia della brigantessa Maria
Oliverio del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva” ho dato l’anima.
Ho frequentato., in circa 10 anni, e per decine di volte l’Archivio Centrale
dello Stato di Roma, gli Archivi di Stato di Napoli (spesso anche inutilmente),
Cosenza e Catanzaro; la biblioteche Nazionali di Napoli e Cosenza, la nostra
Biblioteca Civica; anche l’archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito ho
frequentato molto spesso. Devo dire che se non avessi avuto la passione per la
storia e l’indispensabile entusiasmo per la ricerca non avrei mai potuto mettere
insieme l’enorme mole di foto digitali di fonti documentarie e riuscire a fare
la sintesi che il mio libro rappresenta.
In particolare, chi erano questi "briganti
casalini"?
L’aggettivo casalini, riferito
ai briganti dei casali di Cosenza, non è inventato, ma l’ho spesso incontrato
negli interrogatori dei processi. E’ curioso che questa identificazione precisa
veniva da testimoni che provenivano da Acri, Luzzi oppure da Rogliano, ovvero
appena fuori quel circuito di paesi che sono intorno a Cosenza, in particolare
quelli che hanno alle spalle la Sila.
Nel libro “Briganti Casalini”
si raccontano due vicende. Una è un antefatto del libro Ciccilla che
approfondisce la storia della vittima di Ciccilla: la sorella Teresa. e scopro
i motivi dell’odio che la portano a uccidere.
Alla seconda storia ho voluto dare
per titolo il soprannome di una vittima dei briganti che spesso non vengono
messi nella giusta luce: Pagacota. La vicenda è dedicata a uno dei briganti più
violenti, Vincenzo Marrazzo Esposito. Si racconta la storia di un omicidio
avvenuto prima che il brigante entrasse nella banda Monaco.
E’ interessante perché, in
entrambe le storie, gli intrallazzi del potere che portano all’assoluzione dei
colpevoli sono talmente evidenti e palesi da essere paradigmatici del clima che
si respirava quando si unì l‘Italia e quanto erano condizionati quei giudici
dei palazzi della giustizia di Cosenza e dei suoi casali.
Leggendo i suoi libri, frutto di meticolose ricerche, sembra
di rivivere quei periodi ma vorremmo capire : Lei da che parte sta
La sua non è una domanda
lecita, rappresenta quello che uno storico non dovrebbe mai fare, ovvero
guardare un fatto con il metro di una parte politica. Uno storico dovrebbe
sforzarsi di guardare in maniera oggettiva quello che le fonti primarie
dimostrano. Il vero dramma dell’incomprensione e del mancato approfondimento
del brigantaggio è proprio l’esigenza di stare da una parte. Come se si dovesse
convincere qualcuno, o se si dovesse andare alle elezioni per votare un filo
piemontese o un filo borbonico. Quindi spero di stare dalla parte della Storia
e cerco di dare elementi, mostrare documenti e raccontare fatti per capire il
brigantaggio e perché è esistito un fenomeno tanto pervasivo, complesso e
violento.
Se in qualche tratto del libro
posso aver dato una interpretazione di parte spero di averlo fatto in modo
palese e chiaro dividendo le opinioni o le ipotesi dai fatti, in modo da
lasciare ai miei lettori una libera interpretazione delle fonti documentarie.
Alcuni scrittori descrivono i briganti come eroi altri come
feroci assassini; si leggono racconti di rapine, riscatti, omicidi ma la verità
dove sta?
Ogni brigante ha la sua storia.
Parteggiare per una parte politica provoca proprio quello che la sua domanda
sottintende, ovvero considerare tutti i briganti da una stessa parte politica.
Questo è palesemente falso. Monaco è prima filo piemontese, poi contro i
patrioti e poi per conto suo. Nel suo caso, a seconda del periodo, è piemontese
o antipiemontese o del tutto autonomo.
Schiere di neri briganti
seguirono i mille, come schiere di briganti seguirono Borges prima che venisse
ucciso a Tagliacozzo. Quindi la verità sta nella ricerca e nello studio delle
fonti documentarie (come i processi), la verità è che la comprensione di un
fatto implica una ricerca, uno studio e un approfondimento prima di dire se un
brigante sta da una parte politica o è semplicemente un violento.
Ha dei libri in cantiere per il futuro oltre quelli che mi ha
già accennato?
Da quando ho scritto Ciccilla
non ho mai smesso di ricercare perché troppo grande è il non conosciuto e il
non indagato di questo particolarissimo aspetto della storia cosentina. Con una
differenza, rispetto al passato: ho l’aiuto e la collaborazione dell’amico
Paolo Rizzuti con il quale condivido la passione, lo studio e la ricerca (e
quindi si raddoppia la conoscenza). Con lui ho scritto Briganti Casalini e con
lui scriverò il secondo volume e spero pure un terzo.
Il prossimo libro riguarda
personaggi di quel periodo le cui storie chiariscono proprio quel che si è
detto circa il parteggiare per una parte politica. In particolare il libro
porrà l’attenzione verso un prete patriota e un parroco filoborbonico dei quali
ho accennato in una scena del film Ciccilla.
Il primo è Don Michele Leonetti,
patriota già vittima dei briganti, che segnala al maresciallo Fumel e fa
arrestare 50 briganti di Serra Pedace, per questo verrà barbaramente ucciso con
una fucilata in bocca da tre dei briganti che denunciò.
Il Parroco è, invece Don
Bartolo D’Ambrosio un personaggio davvero sui generis. Rigidamente filo
borbonico e antiunitario fu protagonista nel 1848 delle occupazioni delle terre
in Sila (località Carlo Magno) usurpate dal barone e patriota Berlingieri.
Comico e originale il suo atteggiamento politico durante il plebiscito del 1860
e le sue scaramucce con il patriota e garibaldino Giovan Battista Adami (una
storia alla Guareschi, ma 100 anni prima). All’insediarsi del potere dei Savoia
e in seguito a una rivolta borbonica fu arrestato e rinchiuso nelle carceri di
Catanzaro per un anno, senza processo. Interessanti anche le relazioni con il
brigante Giovan Battista Piluso alias Napulione, suo nipote, figlio della
sorella Emanuella D’Ambrosio.
Il libro approfondirà anche un
altro cruciale periodo. Con Paolo Rizzuti abbiamo approfondito e ricostruito
quanto avvenne a Pedace, a Serra Pedace e a Iotta (altro casale dell’antica
bagliva di Pedace) durante il cosiddetto “Sacco di Pedace” (così lo chiama un
conosciuto saggio dello storico celichese Gustavo Valente) del 1806 e le
relative storie brigantesche legate ai personaggi protagonisti di quei lontani
eventi: come lo sconosciuto e sanguinario brigante RoccoAntonio De Luca o il
celebre brigante (stragista si direbbe oggi) Giacomo Pisano alias Francatrippa
(citato da Dumas, da Stendhal, ritratto da una pittrice francese dell’800, e da
molti gli storici contemporanei), o come Lorenzo Martire protagonista della
reazione borbonica del 1799 e dell’esercito della Santa Fede guidato dal
Cardinale Ruffo e della conseguente guerra contro i francesi.
Un terzo libro, ancora nemmeno
in cantiere, sarà quello degli ultimi capi briganti casalini: Giovanni
Sijinardi di Pietrafitta e Giovanni De Luca di Pedace attivi in un’unica banda
dal 1865 fino al 1876 (11 anni !?!). Su questa banda c’è un velo troppo fitto.
Pochi processi, si intuiscono gravissime forme di repressione. Eppure è
l’ultima banda. Si dice che Giovanni De Luca sia l’unico capo brigante che sia
riuscito a scappare alla giustizia e a partire per l’America. Chissà se
riuscissi a trovarne una traccia. Rimangono, infine, da indagare meglio i
terribili briganti casalini che agirono nel lungo periodo dal 1820 al 1850. Dei
briganti di questo lungo periodo conosciamo meglio Giosafatte Talarico perché
ne parlò Nicola Misasi anche lui di Parenti come il brigante, ma c’erano tanti
altri capi briganti ben più feroci e con più lunga carriera criminale: Magarò
di Spezzano Grande (oggi “della Sila”), Papaianni di Serra Pedace, Coscarella
alias Palumbo di Torzano (oggi Borgo Partenope), ecc ecc ecc. Tanti, troppi.
Quando è iniziato il fenomeno del brigantaggio e da chi è
stato promosso o istigato nelle nostre terre?
Dumas, che conosce bene proprio
i briganti casalini, dice che il fenomeno è endemico. Una grave affermazione,
ma vera. Vuol dire che in ogni età qui ci sono stati briganti che in ogni tempo
hanno condizionato il potere e le comunità di appartenenza. Un recente e bel
libro “Il prefetto e i briganti” di Giuseppe Ferraro si fa una descrizione del
paesaggio dei casali visto dal Prefetto Enrico Guicciardi. Accanto alla
incredibile cura e bellezza dei luoghi, segnala il terribile clima di violenza
al punto che le donne camminavano “attaccate” ai mariti per paura che subissero
violenza.
C’è anche una celebre immagine
nella Poesia di Padula “La notte di Natale” che descrive la Madonna
nell’atteggiamento che Guicciardi descrive. La poesia dice “… toccapiedi allu
vecchiottu, ppe lla strada spara e scura …” vuol dire che la Madonna veniva protetta
da San Giuseppe camminandogli così vicino tanto da toccare con i suoi passi i
piedi dell’uomo. Un clima di estrema violenza quotidiana generata da una
condizione semplice per chi delinque: l’estrema facilità di sfuggire alla
espiazione della pena. Avere un territorio alle spalle immenso e lontano da
ogni comunicazione stradale aiuta non solo la latitanza, ma anche la nascita e
la crescita del fenomeno del brigantaggio. Come lo stesso Misasi ci fa capire
nel suo libro su Giosafatte Talarico i briganti latitanti hanno relazioni stabili
con il potere e la comunità d’appartenenza anche per il semplice fatto che
“gestivano” l’uso della forza in un territorio.
Restando su Padula, sul
giornale da lui diretto, “Il Bruzio”, si chiese e scrisse come mai Francesco
Martire (a quel tempo amministratore dei beni del barone Berlingieri e
direttore del giornale “Cronache di Calabria” e negli anni successivi sindaco
di Cosenza e ministro) non avesse mai subito un’aggressione, un furto, uno
screzio da parte del brigante Pietro Monaco. Per questa “illazione” subì un
processo per calunnia e dovette chiudere “Il Bruzio”. Ma aveva ragione da
vendere.
L’endemicità crea una serie di
condizioni di convivenza, di interrelazioni tra la comunità e chi è bandito,
brigante o “fuoriuscito” (termine con cui efficacemente venivano chiamati i
briganti). Sappiamo che erano i briganti a portare il santo patrono nelle
processioni, che la Madonna del Carmine era la loro protettrice, che alcuni
mestieri come il carbonaio comportava relazioni molto strette con i fuoriusciti
(e questo spiega perché a Serra Pedace, paese con molti carbonai, ci fossero
molti briganti). Un'altra conseguenza dell’endemicità del fenomeno sono le relazioni
parentali tra briganti: si sposavano tra di loro. Ho ritrovato, addirittura,
una lontana relazione parentale tra Giacomo Pisano Francatrippa e Pietro
Monaco. Come appare curioso che il vestito dei briganti fosse nero, uguale nei
decenni, come una divisa (e questo sì, vale per tutti i briganti), ci si
vestiva da briganti. Discorso da approfondire riguarda gli “stili”, cioè i
pugnali dei briganti, alcuni indizi portano a credere che erano distinti a
seconda dell’importanza del brigante all’interno della stessa banda.
Oggi, sorge spontaneo a noi lettori chiederci se questo
fenomeno si sia esaurito o ha cambiato nomi e vesti storiche?
No. Non c’è nulla di simile
oggi. Credo che il brigantaggio sia stato un fenomeno che si è ancora lontani
dal coglierne la portata. Erano in relazione con il potere e nello stesso tempo
lupi, uomini con una relazione simbiotica con la natura, le montagne e il
paesaggio. Il romanticismo/verismo con cui Nicola Misasi guarda ai briganti è
più che giustificato, pur se non ha nulla di storico. Per in grande scrittore
(aspetto una sua rivalutazione) la Sila senza i briganti era come la notte
senza le stelle. Misasi considerava i briganti dei Robin Hood si sforzava di
trovare angoli di bontà inventandosi storie inverosimili. Forse le
organizzazioni mafiose si avvicinano a quel mondo quando in alcune zone, come i
briganti, hanno il monopolio dell’uso della forza e della violenza in
sostituzione dello Stato. Ma nulla di paragonabile.
Chi vuole conoscere e studiare questo periodo storico da
dove può iniziare i suoi studi?
Credo che pochi siano i libri
che possano aiutare davvero a capire. Le cosa da esplorare sono troppe.
Consiglio un semplice manuale di Storia che inquadri il periodo e che dia le
basi su come ricercare per capire cosa sono le fonti primarie e quelle
secondarie e che cos’è la Storia.
Se lo studioso è calabrese gli
chiederei di partire dal suo cognome o dal cognome della madre, delle nonne e
dei nonni e cominciare a indagare se tra i propri parenti ci siamo briganti o
vittime di briganti. Poi andrei all’archivio di Stato di Cosenza o di Catanzaro
(il fondo dei processi si trova a Lamezia Terme) e cercherei delle
corrispondenze nelle banche dati (digitali o cartacee) che gli archivi
forniscono. Moltissimi troveranno che i propri parenti furono coinvolti in
vicende brigantesche. Poi lasciare le curiosità invada i loro cuori. Agli altri
consiglio di approfondire la storia di un qualsiasi capo brigante e ricercare,
leggere e trascriverne i processi e cominciare dai fatti descritti a indagare
tutte le relazioni possibili soprattutto con il territorio, i potenti del tempo,
le case dove abitava, i luoghi dove furono commessi i delitti e squarciare
sempre più quel velo che si sta aprendo sempre più.
Le pongo un'ultima domanda . Mettiamo il caso che Lei domani mattina si alza e si trova nel 1860, nel mezzo di una battaglia tra i Borbone e i Savoia: quale brigante vorrebbe essere, perchè in fondo penso si sente anche tale oggi, e chi difenderebbe o meglio chi combatterebbe?
Da quanto ho detto fin ora avràcapito che non ho trovato briganti buoni con cui identificarsi. Ma tra i tanti uno che mi è sembrato il più simpatico è un prete di Perito, si chiamava Raffaele De Marco, che nel 1848 per stare dalla parte dei contadini e per l'unità d'Italia, si spoglia della tonaca, si veste da brigante e, al suono del tamburo, alla testa di 200 pedacesi occupa le terre a Lorica, proprio dove oggi c'è il lago Arvo.
Le pongo un'ultima domanda . Mettiamo il caso che Lei domani mattina si alza e si trova nel 1860, nel mezzo di una battaglia tra i Borbone e i Savoia: quale brigante vorrebbe essere, perchè in fondo penso si sente anche tale oggi, e chi difenderebbe o meglio chi combatterebbe?
Da quanto ho detto fin ora avràcapito che non ho trovato briganti buoni con cui identificarsi. Ma tra i tanti uno che mi è sembrato il più simpatico è un prete di Perito, si chiamava Raffaele De Marco, che nel 1848 per stare dalla parte dei contadini e per l'unità d'Italia, si spoglia della tonaca, si veste da brigante e, al suono del tamburo, alla testa di 200 pedacesi occupa le terre a Lorica, proprio dove oggi c'è il lago Arvo.