Recensione al libro "Briganti Casalini"
di Egilio Santoro
Ho apprezzato molto il volume “Briganti Casalini”. Peppino Curcio e Paolo
Rizzuti narrano, con uno stile scorrevole, chiaro, accattivante, che desta
interesse e desiderio di conoscere, due tragici fatti di sangue, il primo
accaduto a Macchia, il secondo a Serra Pedace.
Apprezzabile è innanzi tutto la descrizione del paesaggio di Macchia e
dei Casali, con la quale Peppino Curcio si manifesta poeta e pittore. Con
pennellate “linguistiche” colorite, ci presenta un borgo antico caratteristico,
sprofondato nel verde della natura circostante, con le sue piccole casette
raccolte intorno agli stretti vicoli dove giocano spensierati bambini, casette
fatte “di antiche pietre scurite dal tempo”, eppure tanto care ai Casalini. I
vigneti, gli alberi da frutta, i boschi di querce e di castagni, i pascoli, la
natura aspra delle montagne circostanti hanno sempre affascinato in tutti i
tempi i visitatori, come Alessandro Dumas nell’Ottocento, che i nostri due
autori ricordano. Tra i numerosi visitatori della Presila, proprio nelle mie
letture di questi giorni, ho incontrato un Leandro Alberti che, nel
Cinquecento, nella sua “Descrittione di
tutta Italia”, così si esprimeva: a “Robetto
[Rovito], Celico, Spezzano maggiore, Spezzano Picciolo,
Pedaggio e Pietra Fitta”, tutto era “cultivato
et pieno di ogni maniera d’alberi fruttiferi con belle vigne che pareno tutti
ornati giardini”.1
Quale contrasto tra la natura bella del paesaggio e i fatti di sangue che
subito dopo sono descritti! Come mai alla sensazione piacevole che si ha, osservando
il paesaggio, segue l’amarezza per i fatti subito dopo narrati? Io penso che
gli autori ci vogliono far riflettere su quanto era precaria la vita dei nostri
antichi progenitori.
Descrivendo inizialmente il delitto e rivelando subito il nome degli
autori, alternando i commenti con le varie fasi istruttorie e processuali, come
in alcuni famosi programmi televisivi di Rai Tre intitolati “Un giorno in
pretura”, ci fanno quasi assistere visivamente – noi che siamo casalini
conosciamo sufficientemente i luoghi - all’esecuzione dei delitti, alle
dichiarazioni dei testimoni, alle definizioni delle prove; infine ci fanno
amaramente riflettere sulle connivenze tra le istituzioni, vecchie e nuove, e i
cosiddetti “cattivi”, alcuni dei quali, nonostante le evidenze, alla fine, non
pagano per il male commesso.
Non è vero, quindi, che le cosiddette “microstorie” sono fatti isolati,
separati dalla situazione culturale, sociale ed economica generale di un
ambiente, di una comunità, di un popolo. Anche i piccoli accadimenti, i
semplici fatti di cronaca ci aiutano a
comprendere meglio la situazione generale; possiamo dire che le piccole storie
sono il riflesso delle grandi storie e viceversa. Quanti, a livello accademico,
cercano di costruire la storia generale di un popolo, non possono fare a meno
di individuare e analizzare anche i più piccoli fatti, che ai profani possono
sembrare insignificanti. Una piccola scintilla può causare un incendio; una
piccola ribellione di un contadino o di semplice operaio contro la prepotenza
di un padrone spesso ha dato l’avvio a un’insurrezione generale.
Macchia e gli altri casali presilani da secoli vissero una perenne
arretratezza economica; a questa, nel periodo pre- e post-risorgimentale, si
aggiunse, come non mai, una situazione politica caotica e disorientante. Le
popolazioni meridionali, nella prima metà dell’Ottocento, sperimentarono il
dominio francese e quello borbonico, i moti carbonari e liberali, le cosiddette
guerre d’indipendenza, conobbero Garibaldi e infine l’Unità d’Italia. Solo
pochi intellettuali, però, ebbero veri valori ideali di riferimento; la piccola
borghesia e aristocrazia locale, che viveva soprattutto con un’agricoltura
arretrata, fu pronta sempre ad adattarsi alla situazione politica nuova,
appoggiando in modo gattopardesco il dominatore di turno e cercando così di
proteggere le proprietà e i personali interessi economici.
La grande massa contadina era quasi interamente analfabeta e non aveva
valori di riferimento; in genere non faceva altro che conformarsi alle
decisioni spesso ambigue delle piccole autorità locali. Sfruttata da secoli,
affamata e costretta a vivere di espedienti, spesso smarriva il senso morale della
vita. A volte, dinanzi ai ripetuti capovolgimenti politici e alle false
promesse dei nuovi dominatori, pensava che finalmente fosse giunto il tempo del
suo riscatto sociale ed economico; alla speranza seguiva una disillusione
amara, tragica e disperante: i casalini, allora, o piegavano il capo e
accettavano la condizione precaria della loro vita o sceglievano la ribellione,
la violenza e la vendetta, depredando, uccidendo e rimanendo uccisi senza
alcuna remora morale.
Emblematico è il racconto di Giovanni Verga intitolato “Libertà”. Narra la vicenda tragica di
contadini siciliani che, dinanzi all’avanzata vittoriosa dei Garibaldini,
insorsero e gridavano “Viva Vittorio Emanuele! Viva Garibaldi! Viva la
libertà!”. Quest’ultima parola, per loro, non aveva un significato ideologico,
significava essenzialmente pane. L’assalto alle case dei baroni e l’uccisione,
anche se crudele e feroce dei padroni, significava, per loro, meritata
punizione per chi, con soprusi perpetrati da generazioni e generazioni nei loro
confronti, li aveva sempre sfruttati. Le insurrezioni, come sappiamo, furono ferocemente domate dagli stessi garibaldini, con dure condanne ed esecuzioni capitali, e l’ordine baronale e borghese continuò a dominare sui villani dell’isola.
In un contesto quasi simile vive il popolo casalino. E in questo contesto
si possono inserire diverse microstorie, simili a quelle che i nostri due autori hanno sapientemente raccontato.
Mi rimane da fare un’altra piccola riflessione: come si presentava agli occhi della povera
gente la chiesa locale?
Perseguiva l’obiettivo dell’elevazione
sociale, morale
e religiosa della popolazione?
I sacerdoti locali
si adoperavano per dare qualche motivo di speranza e di fiducia ai poveri e bisognosi delle loro comunità? Oppure,
per quieto vivere
e per una sicurezza personale,
sostanzialmente erano
soltanto amici dei potenti di turno, pronti a difendere i loro interessi personali e a trascurare del tutto i loro doveri di religiosi?
Le relazioni sulle visite
pastorali e il carteggio tra la popolazione
dei paesi
presilani e la Curia Arcivescovile di Cosenza, presenti nell’Archivio Diocesano, sono ricche di notizie sui nostri sacerdoti. I giudizi espressi su alcuni di essi rivelano spesso mediocrità morale e preparazione religiosa insufficiente. In particolare la comunità di Macchia
ebbe, nella prima metà dell’Ottocento, per circa quaranta
anni, un sacerdote, a dir poco, dissoluto, almeno secondo i documenti da me consultati, che, anziché educare la gioventù del luogo ed essere di esempio, era motivo di sconcerto e di disorientamento, era l’espressione tipica di una Chiesa locale in crisi. Il conflitto tra questo sacerdote - imposto e mai rimosso, perché forse appartenente a qualche famiglia importante del tempo - e i cittadini di Macchia acuì e inasprì senz’altro lo stato di malessere sociale
di molti giovani, che, senza istituzioni
civili e religiose valide e operative, crebbero con un’idea della vita, considerata solo come una lotta dura e crudele tra uomini per la sopravvivenza.
“Homo homini lupus” diceva
Plauto: l’uomo diventa
lupo per l’altro uomo, quando ha fame ed è privo di remore morali;
“Homo homini deus est, si suum officium sciat” diceva Cecilio Stazio: l’uomo è un dio per l’altro uomo se conosce il proprio dovere.
1 Leandro ALBERTI, Descrittione di tutta Italia, Bologna 1550 p. 190 recto.