domenica 20 ottobre 2019



Recensione al libro "Briganti Casalini"

di Egilio Santoro




Ho apprezzato molto il volume “Briganti Casalini”. Peppino Curcio e Paolo Rizzuti narrano, con uno stile scorrevole, chiaro, accattivante, che desta interesse e desiderio di conoscere, due tragici fatti di sangue, il primo accaduto a Macchia, il secondo a Serra Pedace.
Apprezzabile è innanzi tutto la descrizione del paesaggio di Macchia e dei Casali, con la quale Peppino Curcio si manifesta poeta e pittore. Con pennellate “linguistiche” colorite, ci presenta un borgo antico caratteristico, sprofondato nel verde della natura circostante, con le sue piccole casette raccolte intorno agli stretti vicoli dove giocano spensierati bambini, casette fatte “di antiche pietre scurite dal tempo”, eppure tanto care ai Casalini. I vigneti, gli alberi da frutta, i boschi di querce e di castagni, i pascoli, la natura aspra delle montagne circostanti hanno sempre affascinato in tutti i tempi i visitatori, come Alessandro Dumas nell’Ottocento, che i nostri due autori ricordano. Tra i numerosi visitatori della Presila, proprio nelle mie letture di questi giorni, ho incontrato un Leandro Alberti che, nel Cinquecento, nella sua “Descrittione di tutta Italia”, così si esprimeva: a “Robetto [Rovito], Celico, Spezzano maggiore, Spezzano Picciolo, Pedaggio e Pietra Fitta”, tutto era “cultivato et pieno di ogni maniera d’alberi fruttiferi con belle vigne che pareno tutti ornati giardini”.1
Quale contrasto tra la natura bella del paesaggio e i fatti di sangue che subito dopo sono descritti! Come mai alla sensazione piacevole che si ha, osservando il paesaggio, segue l’amarezza per i fatti subito dopo narrati? Io penso che gli autori ci vogliono far riflettere su quanto era precaria la vita dei nostri antichi progenitori.
Descrivendo inizialmente il delitto e rivelando subito il nome degli autori, alternando i commenti con le varie fasi istruttorie e processuali, come in alcuni famosi programmi televisivi di Rai Tre intitolati “Un giorno in pretura”, ci fanno quasi assistere visivamente – noi che siamo casalini conosciamo sufficientemente i luoghi - all’esecuzione dei delitti, alle dichiarazioni dei testimoni, alle definizioni delle prove; infine ci fanno amaramente riflettere sulle connivenze tra le istituzioni, vecchie e nuove, e i cosiddetti “cattivi”, alcuni dei quali, nonostante le evidenze, alla fine, non pagano per il male commesso.
Non è vero, quindi, che le cosiddette “microstorie” sono fatti isolati, separati dalla situazione culturale, sociale ed economica generale di un ambiente, di una comunità, di un popolo. Anche i piccoli accadimenti, i semplici fatti di cronaca ci aiutano a comprendere meglio la situazione generale; possiamo dire che le piccole storie sono il riflesso delle grandi storie e viceversa. Quanti, a livello accademico, cercano di costruire la storia generale di un popolo, non possono fare a meno di individuare e analizzare anche i più piccoli fatti, che ai profani possono sembrare insignificanti. Una piccola scintilla può causare un incendio; una piccola ribellione di un contadino o di semplice operaio contro la prepotenza di un padrone spesso ha dato l’avvio a un’insurrezione generale.
Macchia e gli altri casali presilani da secoli vissero una perenne arretratezza economica; a questa, nel periodo pre- e post-risorgimentale, si aggiunse, come non mai, una situazione politica caotica e disorientante. Le popolazioni meridionali, nella prima metà dell’Ottocento, sperimentarono il dominio francese e quello borbonico, i moti carbonari e liberali, le cosiddette guerre d’indipendenza, conobbero Garibaldi e infine l’Unità d’Italia. Solo pochi intellettuali, però, ebbero veri valori ideali di riferimento; la piccola borghesia e aristocrazia locale, che viveva soprattutto con un’agricoltura arretrata, fu pronta sempre ad adattarsi alla situazione politica nuova, appoggiando in modo gattopardesco il dominatore di turno e cercando così di proteggere le proprietà e i personali interessi economici.
La grande massa contadina era quasi interamente analfabeta e non aveva valori di riferimento; in genere non faceva altro che conformarsi alle decisioni spesso ambigue delle piccole autorità locali. Sfruttata da secoli, affamata e costretta a vivere di espedienti, spesso smarriva il senso morale della vita. A volte, dinanzi ai ripetuti capovolgimenti politici e alle false promesse dei nuovi dominatori, pensava che finalmente fosse giunto il tempo del suo riscatto sociale ed economico; alla speranza seguiva una disillusione amara, tragica e disperante: i casalini, allora, o piegavano il capo e accettavano la condizione precaria della loro vita o sceglievano la ribellione, la violenza e la vendetta, depredando, uccidendo e rimanendo uccisi senza alcuna remora morale.
Emblematico è il racconto di Giovanni Verga intitolato “Libertà”. Narra la vicenda tragica di contadini siciliani che, dinanzi all’avanzata vittoriosa dei Garibaldini, insorsero e gridavano “Viva Vittorio Emanuele! Viva Garibaldi! Viva la libertà!”. Quest’ultima parola, per loro, non aveva un significato ideologico, significava essenzialmente pane. L’assalto alle case dei baroni e l’uccisione, anche se crudele e feroce dei padroni, significava, per loro, meritata punizione per chi, con soprusi perpetrati da generazioni e generazioni nei loro confronti, li aveva sempre sfruttati. Le insurrezioni, come sappiamo, furono ferocemente domate dagli stessi garibaldini, con dure condanne ed esecuzioni capitali, e l’ordine baronale e borghese continuò a dominare sui villani dell’isola.


In  un  contesto  quasi  simile  vive  il  popolo  casalino.  E  in  questo  contesto  si possono inserire diverse microstorie, simili a quelle che i nostri due autori hanno sapientemente raccontato.

Mi rimane da fare un’altra piccola riflessione: come si presentava agli occhi della  povera  gente  la  chiesa  locale?  Perseguiva  l’obiettivo  dell’elevazione  sociale, morale  e  religiosa  della  popolazione?  I  sacerdoti  locali  si  adoperavano  per  dare qualche motivo di speranza e di fiducia ai poveri e bisognosi delle loro comunità? Oppure,  per  quieto  vivere  e  per  una  sicurezza  personale,  sostanzialmente  erano soltanto amici dei potenti di turno, pronti a difendere i loro interessi personali e a trascurare del tutto i loro doveri di religiosi?

Le  relazioni  sulle  visite  pastorali  e  il  carteggio  tra  la  popolazione  dei  paesi presilani e la Curia Arcivescovile di Cosenza, presenti nell’Archivio Diocesano, sono ricche di notizie sui nostri sacerdoti. I giudizi espressi su alcuni di essi rivelano spesso mediocrità morale e preparazione religiosa insufficiente. In particolare la comunità di  Macchia  ebbe,  nella  prima  metà  dell’Ottocento,  per  circa  quaranta  anni,  un sacerdote, a dir poco, dissoluto, almeno secondo i documenti da me consultati, che, anziché educare la gioventù del luogo ed essere di esempio, era motivo di sconcerto e di disorientamento, era l’espressione tipica di una Chiesa locale in crisi. Il conflitto tra questo sacerdote - imposto e mai rimosso, perché forse appartenente a qualche famiglia importante del tempo - e i cittadini di Macchia acuì e inasprì senz’altro lo stato  di  malessere  sociale  di  molti  giovani,  che,  senza  istituzioni  civili  e  religiose valide e operative, crebbero con un’idea della vita, considerata solo come una lotta dura e crudele tra uomini per la sopravvivenza.

Homo  homini  lupus  diceva  Plauto:  l’uomo  diventa  lupo  per  l’altro  uomo, quando  ha  fame  ed  è  privo  di  remore  morali;  Homo  homini  deus  est,  si  suum officium sciat diceva Cecilio Stazio: l’uomo è un dio per l’altro uomo se conosce il proprio dovere.

Leandro ALBERTIDescrittione di tutta ItaliaBologna 1550 p. 190 recto.

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