martedì 19 maggio 2015

Pietro Monaco è Robin Hood. Il racconto di Dumas su Pietro Monaco e Ciccilla

Robin Hood è solo ispirato a una storia vera. Alexandre Dumas, che lo rese celebre, ha poi influenzato i giudizi su banditi e briganti di ogni latitudine.
Il termine "brigante" è un regalo lasciatoci dai francesi, prima dell'invasione napoleonica noi li chiamavamo fuoriusciti che è proprio un sinonimo di banditi.
Alexandre Dumas, Come tanti viaggiatori francesi e inglesi conosce la Calabria e in particolare Cosenza e i suoi Casali. 
Affascinato dalla nostra terra, nel 1835 fa un viaggio da queste parti. Capita qui mentre è in corso un terribile sciame sismico e descrive le proprie e le nostre paure. Fa una breve visita al Casale distrutto di Castiglione. Lo accompagna nella sua insolita visita alla città il sindaco Mollo, appartenente a una antica famiglia casalina di Serra Pedace. 
Dumas scrive la Storia del brigantaggio nelle province meridionali citando Giacomo Pisano, alias Francatrippa, dice che è di Parenti. In realtà Francatrippa è di Pedace (o di Serra Pedace ancora non è acclarato); Parenti è solo uno dei luoghi dove commise le sue imprese sanguinose.
Dumas si inventa anche dei graziosi romanzi che hanno per protagonisti dei briganti calabresi: Mastro Adamo il calabrese  e Cherubino e Celestino.
L'irruenza e il patriottismo esterofilo di Dumas lo fanno partecipare all'impresa dei mille e con il suo giornale L'Indipendente (titolo suggerito da Garibaldi) tesse le lodi dell'Unità d' Italia.
Tra queste lodi è da inserire il racconto sui briganti Pietro Monaco e la moglie Maria Oliverio scritto sempre su L'Indipendente in prima pagina dal 4 marzo 1864. Il racconto è diviso in sette capitoli. Da cronista e non storico di quegli eventi gli perdoniamo una serie di inesattezze su particolari impossibili da approfondire a quei tempi, ma apprezziamo, oltre che l'interesse di un così importante letterato per la nostra Storia, anche una osservazione esatta proprio sui briganti dei Casali cosentini. E' lui ad affermare che il brigantaggio qui è endemico. Una parola pesante come un macigno, ma che condivido totalmente. Fondamentale per comprendere il fenomeno.
Verso la fine del racconto su Pietro Monaco, Dumas è disgustato dagli intrighi dietro questa vicenda di cui ne aveva esaltato i contorni con decine di articoli apparsi già dal settembre del 1863.
Robin Hood è l'opposto di Pietro Monaco, tutto quello che Dumas avrebbe voluto trovare in un brigante e non ha mai trovato.
Non a caso è proprio il successivo romanzo che scriverà.





di Alessandro Dumas

Pietro Monaco
sua moglie Maria Oliverio

ED I LORO COMPLICI
Capitolo  I[1]


Riceviamo da un nostro amico la fotografia della moglie del brigante Monaco: è per noi questa un’occasione di narrare la storia di questo brigante e della sua banda distrutta per la perseveranza, il coraggio ed il patriottismo del bravo generale Orsini. Pietro Monaco nacque verso il 1828 da poveri bracciali: era quindi un uomo di 35 o 36 anni quando fu ucciso dal suo luogotenente: era di Macchia, vicino Cosenza. La sua giovinezza non offre nulla che merita ricordo: era anzi tenuto in buon concetto: i suoi genitori troppo poveri per occuparsi dalla sua educazione non gli fecero imparare né a leggere né a scrivere. Partì come soldato in età di 21 anni; servì 7 anni; disertò all’avvicinarsi di Garibaldi; tornò a casa; vi si ammogliò; partì co’ volontari garibaldini; combatté a Capua con tanto coraggio che fu nominato sottotenente.
         Allo sciogliersi de’ volontari, tornò al paese. Al principio del 1861 venne a contese con un proprietario di Serrapedace, che credeva suo nemico: le discordie in Calabria son mortali; Monaco s’appiattò sul passaggio del nemico e lo uccise con una fucilata. Fuggì quindi nella montagna, ove restò, vivendo da ladrone.
         Monaco, l’abbiamo detto, si era ammogliato: aveva sposato una giovanetta a nome Maria Oliverio: per disgrazia la sorella maggiore di lei era stata, prima di queste Nozze, amante di Monaco aveva continuato le sue relazioni con la sua antica ganza, e benché latitante, tornava di notte, tre o quattro volte la settimana, al paese, per vedere la sua cognata e non sua moglie: costei sapeva tutto, era orribilmente gelosa; ma, malgrado la sua vigilanza, non poté mai sorprenderli.
Stanca di quella rivale, l’amante di Monaco volle disfarsi della sorella. Aspettò la prima assenza del marito; nascose una corda sotto il capezzale del letto ed invitò la sorella ad andarle a tener compagnia: quella accettò volentieri l’invito; si recò in casa della sorella col sorriso sulle labbra; ma promise a se stessa di approfittare di quell’occasione offertale per vendicarsi. Le due sorelle cenarono insieme; ciascuna faceva all’altra buona cera. La sorella maggiore coricossi la prima, dopo una lunga conversazione, invitando la moglie di Monaco a seguirla nel letto. Questa, sotto pretesto che non aveva sonno, si pose a cucire, sperando sempre che l’altra si addormentasse, e che durante il sonno potrebbe sbarazzarsene; ma quella invece si ostinava a vegliare. La terribile commedia doveva aver termine: la donna rimasta vestita cercava da qualche momento un’arme ed aveva adocchiato un scure in un angolo del focolaio: ella vi balzo e si scagliò contro la sorella: la lotta fu terribile: soltanto al trentacinquesimo colpo, quella che era nel letto spirò; benché morta continuò a percuoterla e non si fermò che al cinquantaduesimo colpo: la mutilazione
Ogni colpo era stato accompagnato da un’ingiuria o da una bestemmia. Maria Oliverio raccontò di propria bocca il fatto, ed il suo racconto prolungato con compiacenza, fece conoscere i più minuti particolari di quell’assassinio.
         Compita la vendetta, Maria Oliverio fuggì presso sua madre, Maria Scarcella, che dimorava con una sua sorella, zia di Maria, a nome Maddalena Scarcella, detta Terremoto, e che era già stata brigantessa con suo marito, da cui aveva ereditato il nome terribile, e che era stato fucilato come brigante sette o otto anni prima[2]. Considerata come complice del marito, ella non riuscì di carcere che al passaggio di Garibaldi in Calabria; le tre donne tennero consiglio e decisero tosto di partire per la Sila, il che fu eseguito, Trattavasi di rappaciare i due sposi, malgrado l’accaduto; e benché Maria Oliverio, lorda di sangue della sorella, dichiarasse che ciò ch’avea fatto alla sorella lo farebbe ad ogni donna amata dal marito, Monaco la ricevé benissimo.



[1] Biblioteca Nazionale di Napoli, Sezione Lucchesi Palli, L’indipendente Anno IV, N. 51, Venerdì 4 marzo 1864, pag 1 e 2
[2] Questa informazione non è completamente esatta, perché non esiste nello stato civile di Càsole Bruzio, custodito presso l’archivio di Stato di Cosenza, una donna di nome Maddalena Scarcella. Le ricerche condotte hanno scoperto, invece, che una zia e ad una cugina hanno correlazioni con le notizie fornite da Dumas: la prima correlazione con il nome, “Maddalena” e la seconda con il soprannome del marito “Terremoto”. Alessandro Dumas volendo dimostrare quanto il brigantaggio in Calabria fosse fenomeno endemico non poteva trovare famiglia più “azzeccata”. Troviamo l’origine del riferimento di Dumas negli atti di un processo custodito a Roma presso l’Archivio Centrale dello Stato (Fondo Tribunali Militari Straordinari Busta 135 f. 1516.25) contro due donne di Càsole: Maria Precenzano e Maddalena Oliverio. Giudicate per aver dato ospitalità e cure al brigante Luigi Serra, fratello di Francesco Serra, alias Ciccione. La prima era cugina di Maria Oliverio. Maddalena, invece, era la zia. Tra gli altri documenti ecco quello più esplicativo ai nostri fini, ovvero due distinte certificazioni da parte della Giunta comunale di Càsole Bruzio sulle “referenze” e sulle parentele delle due donne:
1.     La Giunta municipale di Càsole certifica che la nominata Maria Giuseppa Provenzano figlia del fu Gaetano di Càsole di anni 34 gode cattiva opinione Politica e morale. La  stessa è vedova del famigerato brigante Salvatore Serra (alias Terremoto – vedi stesso processo foglio 2), il quale morì scorrendo la campagna unitamente alla comitiva Cava (famigerato capo brigante di Pedace, paese limitrofo a Càsole, operante nella stessa zona negli anni precedenti l’unità d’Italia). E’ cognata ancora di Pasquale Serra che per omicidio trovasi condannato ad anni 25 di ferri. E’ parimenti cognata dell’attuale brigante Francesco Serra. Finalmente è cugina al brigante Raffaele ed alla brigantessa Maria Oliverio perché figlia di … Sorella al padre dei predetti Oliverio. Per tale ragione di parentela è stata sempre legata in relazione colla comitiva  ….”
2.     La Giunta municipale di Càsole certifica  che la nominata Maddalena Oliverio (di anni 60) del fu Raffaele del medesimo comune di Càsole non Ha goduto di buona condotta perché ha sempre alloggiato in sua casa gente di cattiva condotta  ed infatti nel 1860 teneva in sua casa nascosto il brigante Pasquale Celestino di SerraPedace, il quale era legato in … con Maria Giuseppa Provenzano del fu Gaetano di Càsole nella quale casa fu poi il suddetto brigante arrestato, giusta i verbali che si trovano in mano alla giustizia. La Maddalena Oliverio è zia del brigante Raffaele Oliverio e della Brigantessa Maria Oliverio … “

Per essere questa la verità ne abbiamo rilasciato il presente a richiesta dell’ufficiale militare del tribunale di guerra della provincia di Calabria Citra
Firmato, Pasquale Ponte (sindaco) Raffaele Vencia (assessore) Giuseppe Magliari (assessore)
(Il segretario Grisolia)”

Il Sindaco ebbe gravissime conseguenze dal coraggio dimostrato di avere nel mettersi contro i briganti: le sue proprietà in Sila saranno il bersaglio prima di Pietro Monaco e Maria Oliverio il 16 settembre 1862 (AS CS Fondo Corte d’Assise, Processi Penali B. 63) e poi il 28 agosto del 1864 di Raffaele Oliverio alias Niurone o Sciolella (Archivio dell’Ufficio dello Stato Maggiore  dell’Esercito, G 11, Fondo Brigantaggio, Busta 63, f. 3) fratello maggiore di Maria.
Giuseppe Magliari fu ucciso dalla banda nel luglio del 1863.
Infine, nel processo per l’omicidio di Antonio Leonetti di Casole il 30 luglio 1863 (AS CS Fondo Corte d’Assise, Processi Penali B. 891)  si scopre che questi fu ucciso da alcuni briganti della banda Monaco proprio perché ritenuto colpevole dell’uccisione presso Macchia Sacra nel 1858 di Salvatore Serra alias Terremoto. Tra questi briganti assassini: Francesco Serra alias Ciccione (fratello di Salvatore) e Raffaele Oliverio. Questo omicidio pone, forse, la parola fine a ogni idea o ipotesi di rivolta sociale della banda Monaco.


Gli altri capitoli del racconto nel mio libro


 Ciccilla
Storia della brigantessa Maria Oliverio 
del brigate Pietro Monaco e della sua comitiva

domenica 17 maggio 2015

Lo strano rapimento dei cugini Parisio e Mazzei da parte della banda di Pietro Monaco

La banda di Pietro Monaco aveva deciso la guerra totale ai piemontesi, dopo le azioni e il terrore sparso tra i Casali e i proprietari silani si rivolge a Scandale, sullo Jonio (luogo di transumanza delle greggi dei pastori casalini), dove, il 5 aprile 1863, tenta, invano, di rapire il barone Salvatore Drammis lasciando una trista scia di sangue e violenze prima e dopo.
Fu ucciso Rosario Ieraldi, squadrigliere di Drammis; feriti altri due squadriglieri e il figlio del barone, Nicola. Restò ucciso anche un brigante, Giovanni De Luca, alias Battaglia e un contadino di Santa Severina, Saverio De Nardo, estraneo al sequestro. Fu bruciata una pagliaia e uccisi 7 bovi. Quanche giorno prima ci furono furti, minacce al Barone Giuranna e al proprietario Barrese.
Le indagini portarono in pochi giorni all’arresto del brigante “pacifico”, Giovanni De Marco, alias Marchetta il fratello di Salvatore luogotenente della banda e braccio destro di Monaco.

Nel mese di maggio del 1863 la banda Monaco; per il tramite di un certo Michele Tucci, alias Pipello e Carmine Altomare di Rogliano (quest’ultimo torriere del proprietario Achille Mazzei); fu contattata e ospitata in una torre di proprietà dello stesso Mazzei, per rapire il giudice Nicola Nicoletti.

 La famiglia Mazzei di Santo Stefano (oggi “di Rogliano”) è una nota famiglia di patrioti. Giuseppe Mazzei, padre di Achille, morì presso l’Angitola nel 1848 nei moti risorgimentali di quell’anno. Raffaele Mazzei, fratello di Achille è al centro dell’attività clandestina per organizzare l’arrivo di Garibaldi già dal 1856. Tale attività clandestina è diretta dai fratelli Vincenzo e Donato Morelli, quest’ultimo divenne Governatore della Calabria Citeriore dopo il passaggio di Garibaldi. Inoltre la famiglia è in stretto legame di parentela con la famiglia dei Parisio, una delle più importanti casate del cosentino. Antonio Parisio, cugino di Achille, è sindaco di Santo Stefano.


Achille Mazzei sa che Pietro Monaco aveva già prestato i suoi servigi alla causa dell’Unità d’Italia. Aveva anche ucciso il 15 maggio del 1862, due briganti filo borbonici Leonardo Bonaro e Pietro Santo Piluso alias Tabacchera. Ancora prima, il 13 dicembre del 1861 aveva, infatti, rapito, dietro commissione, due mugnai Marco e Domenico Spadafora. In quel rapimento Marco perse la vita. Andrea Spadafora, di Gaspare, loro parente, era uno dei capi della reazione borbonica in atto in tutto il cosentino. Sicuri della fedeltà di Pietro Monaco veniva richiesto questo nuovo servizio.

Pietro Monaco capì che la posta era molto alta, lasciò intendere di accettare quella proposta. In realtà assieme alla moglie, sua unica confidente, decisero di fare un brutto scherzo a quelli che ritenevano, ormai, loro nemici giurati.

Oltretutto il committente del sequestro era più ricco e molto più potente del giudice Nicoletti.

Il 18 giugno decisero di agire dopo aver pernottato in una torre di proprietà dello stesso Mazzei. Sul sagrato della chiesa di Santo Stefano di Rogliano, Achille Mazzei e il cugino Antonio Parisio sostavano al fresco della sera. Anche il giudice Nicola Nicoletti doveva essere da quelle parti.

D’un tratto si udirono spari e grida disumane, la banda di Pietro Monaco al completo faceva irruzione nella piazza antistante la chiesa. Tutti scappano, la brigantessa Maria Oliverio alias Ciccilla rincorre con la sua pistola il giudice Nicoletti che forse temeva qualcosa. Achille e Antonio sono fermi in attesa degli eventi, pensano di essere al sicuro e che la banda obbedisce ai propri ordini e sono davvero sorpresi quando, improvvisamente, Ciccilla che aveva già afferrato il giudice e lo minacciava con la pistola alla tempia adesso è vicina a loro due e anche il resto della banda con al centro Pietro Monaco li ha praticamente circondati. Poi Ciccilla lascia in pace il giudice che si allontana impaurito.

 I due cugini capiscono le vere intenzioni della banda e implorano pietà, nei loro occhi si legge il terrore. I due furono costretti a “correre volando” (una efficace espressione che Achille Mazzei e Antonio Parisio si sentirono imporre continuamente dai briganti mentre erano in fuga e ricordata con comprensibile sgomento) trascinati lontano dalla Piazza fino ai sentieri che conducevano verso Aprigliano. Cercano di prendere una scorciatoia, ma incontrano un vaticale (mulattiere) che potrebbe indicare ai probabili inseguitori la loro direzione. Lo obbligano a seguirli poi decidono di cambiare temporaneamente strada dirigendosi a Piano Lago, lì giunti tramortiscono il mulattiere e riprendono la strada per i Casali del Mango.

Giunti sulle rive del Crati in piena notte si dissetano e riprendono il cammino per essere sui monti sopra Pietrafitta alle 12. Sempre camminando volando. Il sequestro dura fino ai primi giorni agosto e si concluse col pagamento di un riscatto notevole forse di 20.000 ducati richiesti con un “viglietto” ritrovato presso l'Archivio di Stato di Cosenza nel processo per questo duplice rapimento:



Carissimi Mazzei e Parisio Questo è l’ultima volta che avete da me nove (novità) , del vostri fratelli si come mi era contentato con quindici mila docati e mò doveto portare venti mila per tutta la giornata di oggi per amore vostro questa sera occido il prottetto che avete mandato mulinaro e torriere e faceti il funerale dei vostri fratelli che abbiamo avuto molto pacenza si poi volete salvi in vostra casa le dovete mandare per tutta la giornata di oggi.
Non altro più che dirvi 
E mi segno 
Pietro Monaco con la Sua compagnia 



La storia finisce qua.


Ma se qualcuno desidera approfondire e gustare i Paesaggi della Sila con occhi diversi, magari con quelli dei cugini rapiti, aggiungo una lunga memoria consegnata al Giudice che ripercorre il lungo cammino e i rifugi che per quasi due mesi furono costretti a percorrere assieme ai briganti. Un ottimo itinerario. Provate a ripercorrere su una cartina il percorso ... è divertente.


   Al Sig. Regio Giudice del Mandamento di Rogliano 

I Sottoscritti fan noto alla di lei autorità che la sera del 18 giugno [1863], nell’atto che tranquillamente passeggiavamo, come di consueto, nel recinto della Chiesa parrocchiale di questo paese, senza verun sospetto, a circa mezza ora di notte si son visti aggrediti da un’orda di briganti che minacciandoli nella vita se avessero proferito parola, con stili alle mani, gl’ingiungevan di correre volando. Di fatto con la celerità del fulmine abbiamo transitato la traversa della Silvicirella(?), da là transitando pochi passi della consolare ci han gittati nel fiume Calabrici: di là per dentro seminati di grano siamo usciti nella crocevia del Lago, ove ci siamo imbattuti in un trainiere il quale è stato battuto da’ briganti, obbligandolo a seguirci, fino la cosidetta Taverna del Lago, circa un miglio e mezzo, sempre sulla consolare, e ciò a solo oggetto di evitare che si fosse conosciuta la direzione che avean presi per evitare con ciò di essere inseguiti dalla Forza: da ivi lo han fatto voltare, e noi seguendo per altro poco la consolare, fra l’una e l’altra taverna, deviando a dritto ci siamo immessi in un sentiero che poscia da’ briganti abbiam conosciuto, di esser la via del Casali e transitando luoghi alpestri e disagiosi abbiamo guadato il fiume di Craticello, ove ci han fermati un poco per satattarsi(?) di acqua: di là sempre salendo siam passati vicini un fabbricato che ci han detto essere il convento di Pietrafitta, seguendo sempre il cammino perché l’incalzavano, per la fretta di prendere il desco, siamo, al far del giorno, arrivati ad un folto bosco di castagni che, ci dissero chiamarsi la Manca di Barracco tra Pietrafitta e Pedace nella parte superiore. Ivi passammo tutta la giornata del Venerdì e vedemmo un distaccamento di Reali Truppe stanziato in Serra Pedace che usciva in perlustrazione per la via della Colla della Vacca. Colà imposero la taglia del nostro riscatto nella somma di ducati 15000 e ci obbligarono a scrivere alle nostre famiglie che avessero cercato di mandare subito tale somma senza che ci fosse mancato un grano, dicendo che la parola di Pietro Monaco è parola di Re, ed assunse l’incarico di far pervenire le nostre lettere alle rispettive nostre famiglie. All’imbrunire siam partiti da quel punto e, sempre salendo, siamo arrivati dentro i fagi, continuando il cammino, ci han fatto fermare ad un punto ov’aveano di convenio , per riunirsi con una porzione della comitiva che si era staccata da noi per trovar vettovaglie; e di fatti ciò avveniva in una torre del sig. Barca di Pedace vicino Lardone del sig. Girolamo Cosentini di Aprigliano. Riuniti tutti abbiam continuato a camminare sempre per dentro il bosco, ed a circa sei ore ci han fatto fermare nel punto cosiddetto Macinello. Ivi siam fermati circa al mezzogiorno del sabato: ma vi si sarebbe passata la giornata se non fosse scassato il fucile ad uno dei briganti per la sua ignoranza nel maneggio delle armi e non avessero creduto che tale esplosione era intesa dalla forza che noi a poca distanza vedessimo alle alture della Colla della Vacca: entrati in questo sospetto, ci hanno obbligato a seguirli lungo un burrone disaggioso, minacciandoci nella vita, se mai non ci fossimo fidati di continuare. Il cammino che da loro s’interpretava, come di fatto sarebbe stato, renitenza al cammino per farci raggiungere dalla Forza. Arrivati in un piano si è principiato una salita che al sol pensare si rabbrividisce e senza avere pietà alcuna di noi ci han fatto giungere fino al culmine ed ivi fermati ci han detto chiamarsi quel luogo la Guardiola di Coppo di proprietà dei signori Sepiana(?) di Catanzaro, limiti al Fiego del cennato sign. Girolamo Cosentini: là fermatici fino alla sera ci siam messi nuovamente a camminare per ben sei lunghe ore, passando il fiume detto Bufala, siamo andati a fermare al Timpone di Scarda(?), dove si è passato il resto della notte e la notte del giorno appresso, e l’intero giorno vi si sarebbe passato, se non fosse stata la circostanza di essere veduti da tre guardiani del Barone Barracco che transitavano in Piedicollito. Per tale motivo a mezzogiorno di domenica piovendo siamo passati da quel punto; bosco, bosco, fin che siamo arrivati in Monte Nero ove si è passata la notte disagiosissima per la continuazione della pioggia. Al cucume di quel monte altissimo abbiam passato molto del giorno di lunedì facendo un grave fuoco ove si sono arrostite due pecore che han servito da pasto a tutta la compagnia. Muovendo da colà ci han fatto passare una lunga scoscesa alberata di pini ed indi usciti ad un piano, ci han fatto fermare con una porzione della comitiva: e l’altra col capo si è staccata da noi per andarsi a provvedere di cibo e trovare una località atta per la dimora della sera. Infatti a circa mezzora di giorno è venuto uno dei distaccati, ci ha condotti ad un luogo quasi inaccessibile, che il capo aveva stabilito di passare la notte. Si è trovato del vino venuto da San Giovanni in Fiore e pane bianco, si è mangiato e dormito. La mattina seguente, come per incanto, si è visto nelle mani dei briganti una bombola con l’olio, un'altra con vino ch’era esclusivamente per noi ricattati, una quantità di fratte comode per friggere, si sono preparate e si è mangiato, dopo di che il capo con i principali della comitiva si sono allontanati da noi ed han discusso sulla via da tenere per mettersi in relazione con le nostre famiglie ed aver sollecitamente il prezzo del nostro riscatto e ritrovar modo di portar noi ad un punto inaccessibile alla Forza, e non sospetto. Dopo aver ciò stabilito fra loro, ci han dato comodo da scrivere e noi tanto abbiamo eseguito premurando le nostre famiglie che avessero cercato in tutti i conti a toglierci da quello stato angustioso e pericoloso. Alle 24 ore di quel giorno siamo mossi da quella località ed abbiamo insieme camminato fino a circa due ore della notte fino ad una torre della detta Ramondo(?) di proprietà della Chiesa di San Pietro di Pedace. Là siamo divisi: sette dei ribaldi sono venuti con noi ed il vitto col capo, han preso non sappiamo quale direzione e noi per punti alpestri e piani, siamo terminati ad una fiumara che dicevano scaricarsi sotto San Giovanni ed unirsi al Nieto. L’abbiamo passata su un cavallo che non appena ci ha condotti sulla sponda opposta, non abbiamo più visto, essendo sparito con persona incognita. Si è camminato tutto il resto della notte, siamo fermati al far del giorno entro un folto bosco di candile [pioppi, in dialetto] e pini, ci dissero di esser vicino a Cotronei, poco sopra il fiume Tacina. In questo punto siamo stati due giorni di seguito: però in questo intervallo abbiamo ricevuto ordine dal Capo per mezzo di un brigante, di trasferirci in un luogo di convenio, per farci vedere la prima volta le persone del nostro servizio; di fatti dopo quattro ore e più di cammino passando vicino una torre detta Rinosi del sig. Verga di Cotronei, ci han fatto fermare, dopo circa mezzora con segni convenzionali di notturni gufi, si è riunita tutta la comitiva e due persone del nostro servizio. In quel rincontro è indefinibile la paura che ci fecero avere e le minacce sulla vita, e la blanda determinazione a solo dire, di tagliarci un orecchio per cadauno e mandarle alle nostre famiglie, per premurare a mandar subito il prezzo del nostro riscatto. Ci fecero scrivere al lume di un cerino e, letta la lettera, s’indispettirono, per non aver trovato la particolarità che si volevano assolutamente i ducati 15000, ed in dopo scritto sulla stessa lettera si volle dal capo far scrivere da noi che non dovea mancare un soldo dei suddetti 15000 ducati e stendo la parola di Pietro Monaco, parole di Re. Dopo questo han congedato prima le nostre genti e togliendoci i ferri dai piedi, noi con quella porzione di comitiva che ci custodisce, siamo ripartiti per le stesse cime, ed andati al punto sopra , ed il resto col capo non sappiamo dove, ma per mantenere le corrispondenze con le nostre famiglie. La sera del sabato 16 luglio, avendo creduto che si fosse potuto penetrare dalla forza la nostra dimora, il capo della comitiva ha spedito ordini per muovere da colà; ed infatti ad un’ora di giorno ci … in cammino, seguendolo per tutta la notte. Al far del giorno abbiamo ritrovato tre della comitiva che conducevano a noi una persona del nostre servizio che grandemente li avea premurati di volerci vedere, onde assicurarsi della nostra esistenza di che si temeva. Passammo insieme tutto il giorno di domenica distanti in località ignota di cui non vollero dirci la denominazione. Con la stessa persona scrivemmo alle nostre famiglie caldissime lettere ed incessanti premure a voce, onde toglierci da quello stato per noi insopportabile anche a costo di rimanere ignude le nostre famiglie istesse, a circa tre ore del giorno liberarono la nostra persona di servizio, e noi continuammo a dimorare in sino alle 24 ore, sotto la sferza di una grandine grossa ed intensa. All’imbrunire si partì e ci unimmo dopo breve transito col resto della compagnia nella cosiddetta Guardiola di Carlomagno Sottano. Quivi si passò la notte di domenica e tutto il giorno di lunedì; la sera poi, dietro aver consigliati i principali della comitiva il capo, sulla via da tracciare, si partì e si camminò quasi tutta la notte per luoghi abbastanza piani e poco boscosi. Passammo per davanti una torre che poscia seppimo chiamarsi Vutorino, ivi ci fecero fermare ed entratici con tre o quattro briganti insieme al capo. Si fornirono di commestibilì, e si ripartì. Poco dopo trovammo una fiumara che passammo sopra un ponte di legno di tre alberi di pino l’uno appresso all’altro e non ci vollero dire il nome, seguendo il cammino a circa sei ore siam giunti in un bosco nomato il Corbo: ove si passò l’avanzo della notte e tutto il giorno appresso. Camminando sempre, verso ad un’ora di giorno ci fecero scrivere alla nostre famiglie, sempre né sensi di maggior sollecitudine per l’invio di tutta la somma : senza di che non ci avrebbero salvato la vita. Indi si è divisa la comitiva in due porzioni, una per custodir noi e l’altra per riattivare la corrispondenza con le nostre famiglie che dicevano a più giorni interrotte. Di quel punto siam partiti ed a circa mezza ora di notte siamo arrivati in una piccola pagliaja vicino una torre detta Covone del Barone Barracco, ove siam dimorati un giorno. A circa diciannove ore del giorno, i convenuti, dopo avere intesi a poca distanza diversi colpi di fucile, credendosi malsicuri si sono determinati a partire, e siamo nuovamente rientrati nel sopradetto bosco Corbo dove si è passata la notte e tutto il giorno di venerdì. A tre ore dello stesso giorno è arrivato il capo con la moglie ed un solo, poiché il resto degli altri che eran con lui si erano suddivisi per andare ad uccidere il caporale(?) del sig. Magliari [si tratta del brigante Magliari di Serrapedace aggregatosi alla banda come spia di Raffaele Falcone, capo delle Guardia Nazionale di stanza a Camigliati]. Da Colà ci fecero scrivere nuovamente alle nostre famiglie, sempre nei sensi che non dovrà mancare un grano della somma di 15000 ducati. Diversamente avrebbero mandato le nostre teste ed alle ore 24 siam partiti da quel punto, e transitando un immenso vallo detto il Campo della Sila Grande, dopo sei ore di cammino ci han fatto fermare in un bosco di fagi poco distante del casino di Fallistro del sig. Mollo. Prima però di giungerci, il capo avea fatto fare provvigioni cibarie e si era deciso da noi per spedir corrieri alle nostre famiglie. Nel sopradetto bosco fermammo tre giorni e nel mezzogiorno 14 stante, fu spedito uno dei nostri custodi alla Calcara di Macchia Sacra e trovò ordini del capo che dovevamo partire per recarci a Macinello. Di fatto a circa 20 ore muovemmo e camminando tutto il giorno per il bosco, siam giunti a circa un’ora di giorno sopra la cosiddetta Valle dell’Inferno dove ci han fatto fermare sino alle ore 24. Poscia si è seguito il cammino, ed a circa tre ore di notte siam fermati al sopradetto punto Silacinello. Al rompere alba , è venuto a noi uno dei briganti ch’era col capo e ci ha detto di essere poco discosto da noi e che aspettavano le genti del nostro servizio. Di fatti verso il mezzogiorno seppimo che tanto avea avuto luogo. Quel giorno ci maltrattarono grandemente facendoci stare sempre coi ferri nei piedi e legati nelle braccia e privi di acqua. Verso quattro ore di giorno, è venuto il capo insieme alle genti del nostro servizio, che ci han trovato in quella deplorabile posizione, ci han sciolte le sole braccia, per farci scrivere e tanto abbiamo praticato, facendo conoscere alle nostre famiglie ch’era l’ultima volta che scrivevamo e che avrebbero realizzato la minaccia di mandare le nostre teste, quante volte fosse mancato un grano alla somma di ducati 15000 e noi soggiungemmo che il modo brutale e inumano col quale avean principiato a trattarci, ci avrebbe uccisi , pria che a tanto si fossero determinati, e che perciò aver fatto tutto il possibile a mandar la suddetta somma, se le nostre vite l’avean care. Partiti da colà all’imbrunire della sera, ci han portato verso la Sila Piccola e siam portati a poca distanza del Cecio(?), passando per acqua di Corbo, siamo arrivati a Quatiagesima, di proprietà del sig Girolamo Cosentini fittato al Barone Barracco, là ci han fatto fermare dentro il bosco con una porzione della compagnia e l’altra porzione è andata alla pagliaja, onde fornirsi di pane, formaggio e due pecore che in stesso bollirono e seguendo il cammino siam fermati in un piccolo bosco tra Colle di Ascione, Camarda(?) ove si è passato l’avanzo della notte e tutto il giorno di giovedì. La sera poi per la Via del Milillo, siamo andati nel bosco detto Lardonetto sopra Piedicollito, del Barone Barracco, ove abbiamo dimorato fino a Domenica con due ore di giorno, dietro aversi prima l’intera somma di 15000 ducati col di più di 350 ducati che dicevano non doversene tener conto, oltre poi a 200 ducati che si sono spesi per appagare i loro desideri che gli venivano davanti i 32 giorni di nostra cattività ed indipendentemente dall’esaurire le nostre dispense del commestibile di provviste, come pure mandate via tutte le biancherie, consistenti in camicie, calzo netti e calze. Questa è la dolente istoria che i sottoscritti fan noto alla di lei autorità. 
 Santo Stefano lì 20 luglio 1863 
 Antonio Parisio Sindaco 
Achille Mazzei

sabato 16 maggio 2015

Virginia. La Storia vera di una bimba rapita dai briganti

Siamo nel 1862; l’Italia Unita è, ormai, un dato di fatto. Pietro Monaco, il terribile brigante casalino, per vendetta contro la sua parte politica decide di colpire un simbolo del neonato Regno: un vecchio carbonaro, primo artefice e precursore dell’Unità d’Italia.

Pietro Monaco il 12 agosto torna nel suo casale di Macchia di Spezzano Piccolo insieme alla moglie Maria Oliverio, chiamata Ciccilla, e al brigante Michele Porco di Rovito. Il 15 agosto è la festa dell’Assunta, padrona di Spezzano Piccolo, e anche il piccolo borgo era in festa con tamburi e balli al fresco della sera. I tre briganti approfittando della confusione e del suono dei tamburi, scaricano 8 proiettili di due fucili e due pistole all’indirizzo dei balconi di casa Gullo ad altezza d’uomo con l’intento di uccidere. Riescono, però, solo a ferire lievemente il loro obiettivo, Ludovico Leonetti.

La risposta del nuovo stato è durissima e violenta, la casa di Pietro Monaco nei giorni successivi viene distrutta dalla Guardia Nazionale guidata di Giò Battista Spina.

Intorno ai primi di settembre giunge a Lorenzo Gullo, cugino di Alfonso, una richiesta di 200 ducati con minacce di incendio di torri e case. La famiglia Gullo rifiutò decisamente tale richiesta.

Il 16 settembre una prima vendetta si compie contro due greggi della famiglia Spina e Barrese ad Aria di Fella e contrada acqua di Oliva (vicino l'attuale Acquacoperta e il ristorante Petite Etoil): 440 pecore uccise.

Monaco e Ciccilla covano ancora vendetta che arriva il 18 ottobre 1862. Nello stessa notte danno fuoco a due torri e a una stalla della famiglia Gullo, poi rapiscono una bambina di appena 12 mesi di nome Virginia ultimogenita del Notaio Alfonso Gullo. La bambina si trovava in una delle torri, date poi alle fiamme, per essere allattata dalla moglie di un torriere di Gullo. Un uso comune a quei tempi.
Il terribile atto avviene con l’aggravante di un sequestro di 9 persone. Un’azione violenta che mise in scacco l’intero casale di Macchia impotente contro la furia del brigante. Delle 9 persone 6 furono rilasciate una volta spenti gli incendi. I briganti tornarono nei loro nascondigli con la bimba Virginia, la sua nutrice, Saveria Guarascio.

I primi 3 giorni li trascorsero nelle foreste del Colle della Vacca, poi per pericolo di vedersi scoperti dalla Forza che li stava cercando, si nascosero sul monte Volpintesta, molto più lontano dai centri abitati. Rimasero nei boschi ancora una settimana fino a che intervenne per liberarli un altro brigante, Giuseppe Scrivano di Celico, ingaggiato dalla famiglia Gullo per contrattare con Pietro Monaco la liberazione della piccola Virginia.

Forse pagarono un riscatto (dalla famiglia Gullo fin troppo negato) o forse il brigante Scrivano portò Monaco e la moglie Ciccilla alla ragionevolezza per quella azione troppo crudele. La bimba, ma anche la mamma adottiva, per le conseguenze del freddo e degli strazi patiti, continuarono a soffrirne per il resto della vita.